Compagni calciatori

Avatar utente
spiritual
Messaggi: 2186
Iscritto il: lun 18 gen 2021, 19:15

Re: Compagni calciatori

Messaggio da spiritual »

Bellissimo! Emozionante. Quella di uscire con il pugno chiuso dall'Olimpico (anche se contro la Roma) sono soddisfazioni che riempiono la vita.
Lo invidio.
Avatar utente
Piazzale Montello
Messaggi: 160
Iscritto il: sab 29 mag 2021, 11:01

Re: Compagni calciatori

Messaggio da Piazzale Montello »

spiritual ha scritto: mar 28 dic 2021, 19:15 Bellissimo! Emozionante. Quella di uscire con il pugno chiuso dall'Olimpico (anche se contro la Roma) sono soddisfazioni che riempiono la vita.
Lo invidio.
Ho cercato il video ma purtroppo non l'ho trovato. Che bellezza...

"Bissò quel gesto all’Olimpico quando, dopo aver fermato la Roma sul 2-2, uscì dal campo con il pugno chiuso. “Perché l’ho fatto? Perché sono comunista e ho salutato i compagni di Cesena che sono venuti a vedermi a Roma”, dichiarò alla stampa".
Avatar utente
Dattero
Messaggi: 5876
Iscritto il: lun 1 feb 2021, 15:52
Località: Livorno

Re: Compagni calciatori

Messaggio da Dattero »

Piazzale Montello ha scritto: mer 29 dic 2021, 8:48
spiritual ha scritto: mar 28 dic 2021, 19:15 Bellissimo! Emozionante. Quella di uscire con il pugno chiuso dall'Olimpico (anche se contro la Roma) sono soddisfazioni che riempiono la vita.
Lo invidio.
Ho cercato il video ma purtroppo non l'ho trovato. Che bellezza...

"Bissò quel gesto all’Olimpico quando, dopo aver fermato la Roma sul 2-2, uscì dal campo con il pugno chiuso. “Perché l’ho fatto? Perché sono comunista e ho salutato i compagni di Cesena che sono venuti a vedermi a Roma”, dichiarò alla stampa".
Stessa cosa fece Luci a Verona

Immagine
Cianciua ci fai veni' l'antua
Avatar utente
piazza
Messaggi: 10199
Iscritto il: ven 15 gen 2021, 20:05

Re: Compagni calciatori

Messaggio da piazza »

E allora mettiamolo anche qui!

Andrea Luci

Ti squaglia l’anima quel calore soffocante, ti mangia dentro. È un calore troppo forte per fermarsi all’altoforno della Lucchini, alla Torre del sale o a Piazza Bovio. Ti entra dentro e ti accompagna tutta la vita, anche lontanissimo da Piombino ogni tanto arriva una lingua di fuoco e ti ustiona.
15 ottobre 1967, è domenica. Allo Stadio Comunale di Torino il Toro di Meroni sfida la Sampdoria. Questa è solo un’anticamera del racconto della nostra storia, ma è fondamentale per capire le ustioni che ti lascia Piombino.
Combin, Francesconi, Combin, Vieri, Moschino e ancora Combin. Torino quattro Sampdoria due.
Aldo Agroppi, toscanaccio di Piombino, esordisce dal primo minuto in maglia granata.
Gigi Meroni, eroe del Comunale, morirà quella sera a 24 anni.
Ti brucia dentro e ti ustiona, con cicatrici che ti porti dentro per tutta la vita.
Il 30 marzo 1985 a Piombino nasce Andrea Luci.
Non si tratta di un volo pindarico: quel pomeriggio di fine marzo in via Forlanini all’ospedale di Piombino c’era anche Aldo Agroppi. Nasceva suo nipote Andrea.
Quando cresci con uno zio che ti racconta dei 90 minuti passati sullo stesso campo di Meroni non puoi far altro che prendere un pallone tra i piedi e giocare. In questo caso particolare pure bene.
Dopo svariati anni nel Salivoli, formazione piombinese, a 11 anni Andrea si trasferisce a Firenze e veste la maglia viola fino al 2002, quando con una presumibile disperazione dello zio Aldo arriva la notizia che ti cambia la vita: la Juve ti cerca. Tanta gavetta tra i ragazzetti bianconeri e poi è l’ora di diventare grandi. Sassari, Pescara e Ascoli sono le tre piazze che vedono sbocciare il talento del centrocampista piombinese. A 21 anni viene acquistato alle buste dopo un’esperienza in prestito proprio dalla società marchigiana che lo vedrà protagonista di tre anni eccezionali: 104 presenze in Serie B, 7 in Coppa e 4 goal.
Meravigliosa Piazza del Popolo, ci mancherebbe, ma ora si torna a casa. O quasi.

Nel 2010 viene acquistato a titolo definitivo dal Livorno, a due passi dalla sua Piombino, e dopo una stagione al top diventa subito una delle fondamenta di quella squadra e un beniamino di una piazza dove l’animo operaio forse conta anche più che vincere. Piombino, in queste cose, ti agevola.
Stadio Bentegodi di Verona, Hellas Verona-Livorno. Dopo i cori dei tifosi gialloblu oltraggianti la memoria di Piermario Morosini l’aria è tesissima. Luca Mazzoni, portiere livornese e del Livorno, presente in tribuna per squalifica verrà aggredito da alcuni tifosi veronesi, Alfred Duncan sarà oggetto di “buu” razzisti. E Luci? Dopo i cori su Morosini nella gara di andata non aveva usato molti giri di parole proponendo la radiazione per la squadra veneta, adesso invece è lì con il pugno chiuso. Punho fechado, come direbbe un certo Dottore dalle parti di San Paolo. Non li guarda neanche quei tifosi che inveiscono contro di lui, volta le spalle e cammina verso la panchina. Prende il giacchetto ed un meraviglioso pugno sinistro si schiude in cielo. Quel pugno sinistro chiuso è un qualcosa di inaspettato, insperato e bellissimo. Quel pugno sinistro chiuso è il gesto giusto al momento giusto, e va goduto in ogni singolo centimetro.
Basta conoscere un minimo l’animo livornese per capire che questo gesto dalle parti dell’Ardenza non ha lasciato indifferenti: da quel momento Andrea Luci è stato Livorno, e Livorno sarà per sempre Andrea Luci.
Il fuoco delle acciaierie però torna a bruciarti quando meno te lo aspetti, e soprattutto nel punto dove fa più male.
Nel 2013 al figlio di sei anni viene diagnosticata la fibrodisplasia ossificante progressiva, malattia genetica che colpisce un bambino su due milioni.
Alla notizia partì una gara di solidarietà in tutta Italia per finanziare la ricerca contro la FOP.
Livorno, come da promessa, in prima fila.
Fa male, ma Piombino è operaia ed è abituata al fuoco, al calore e alle scottature. Alla fine la lega di ferro e carbonio diventerà acciaio e non importerà quanto tu ti sia bruciato.
“Insieme a te Capitano per la più grande delle battaglie”.


Link: https://www.minutosettantotto.it/andrea ... a-acciaio/
Avatar utente
Amarantite
Messaggi: 1021
Iscritto il: gio 21 gen 2021, 12:34

Re: Compagni calciatori

Messaggio da Amarantite »

piazza ha scritto: mer 29 dic 2021, 12:27 E allora mettiamolo anche qui!

Andrea Luci

Ti squaglia l’anima quel calore soffocante, ti mangia dentro. È un calore troppo forte per fermarsi all’altoforno della Lucchini, alla Torre del sale o a Piazza Bovio. Ti entra dentro e ti accompagna tutta la vita, anche lontanissimo da Piombino ogni tanto arriva una lingua di fuoco e ti ustiona.
15 ottobre 1967, è domenica. Allo Stadio Comunale di Torino il Toro di Meroni sfida la Sampdoria. Questa è solo un’anticamera del racconto della nostra storia, ma è fondamentale per capire le ustioni che ti lascia Piombino.
Combin, Francesconi, Combin, Vieri, Moschino e ancora Combin. Torino quattro Sampdoria due.
Aldo Agroppi, toscanaccio di Piombino, esordisce dal primo minuto in maglia granata.
Gigi Meroni, eroe del Comunale, morirà quella sera a 24 anni.
Ti brucia dentro e ti ustiona, con cicatrici che ti porti dentro per tutta la vita.
Il 30 marzo 1985 a Piombino nasce Andrea Luci.
Non si tratta di un volo pindarico: quel pomeriggio di fine marzo in via Forlanini all’ospedale di Piombino c’era anche Aldo Agroppi. Nasceva suo nipote Andrea.
Quando cresci con uno zio che ti racconta dei 90 minuti passati sullo stesso campo di Meroni non puoi far altro che prendere un pallone tra i piedi e giocare. In questo caso particolare pure bene.
Dopo svariati anni nel Salivoli, formazione piombinese, a 11 anni Andrea si trasferisce a Firenze e veste la maglia viola fino al 2002, quando con una presumibile disperazione dello zio Aldo arriva la notizia che ti cambia la vita: la Juve ti cerca. Tanta gavetta tra i ragazzetti bianconeri e poi è l’ora di diventare grandi. Sassari, Pescara e Ascoli sono le tre piazze che vedono sbocciare il talento del centrocampista piombinese. A 21 anni viene acquistato alle buste dopo un’esperienza in prestito proprio dalla società marchigiana che lo vedrà protagonista di tre anni eccezionali: 104 presenze in Serie B, 7 in Coppa e 4 goal.
Meravigliosa Piazza del Popolo, ci mancherebbe, ma ora si torna a casa. O quasi.

Nel 2010 viene acquistato a titolo definitivo dal Livorno, a due passi dalla sua Piombino, e dopo una stagione al top diventa subito una delle fondamenta di quella squadra e un beniamino di una piazza dove l’animo operaio forse conta anche più che vincere. Piombino, in queste cose, ti agevola.
Stadio Bentegodi di Verona, Hellas Verona-Livorno. Dopo i cori dei tifosi gialloblu oltraggianti la memoria di Piermario Morosini l’aria è tesissima. Luca Mazzoni, portiere livornese e del Livorno, presente in tribuna per squalifica verrà aggredito da alcuni tifosi veronesi, Alfred Duncan sarà oggetto di “buu” razzisti. E Luci? Dopo i cori su Morosini nella gara di andata non aveva usato molti giri di parole proponendo la radiazione per la squadra veneta, adesso invece è lì con il pugno chiuso. Punho fechado, come direbbe un certo Dottore dalle parti di San Paolo. Non li guarda neanche quei tifosi che inveiscono contro di lui, volta le spalle e cammina verso la panchina. Prende il giacchetto ed un meraviglioso pugno sinistro si schiude in cielo. Quel pugno sinistro chiuso è un qualcosa di inaspettato, insperato e bellissimo. Quel pugno sinistro chiuso è il gesto giusto al momento giusto, e va goduto in ogni singolo centimetro.
Basta conoscere un minimo l’animo livornese per capire che questo gesto dalle parti dell’Ardenza non ha lasciato indifferenti: da quel momento Andrea Luci è stato Livorno, e Livorno sarà per sempre Andrea Luci.
Il fuoco delle acciaierie però torna a bruciarti quando meno te lo aspetti, e soprattutto nel punto dove fa più male.
Nel 2013 al figlio di sei anni viene diagnosticata la fibrodisplasia ossificante progressiva, malattia genetica che colpisce un bambino su due milioni.
Alla notizia partì una gara di solidarietà in tutta Italia per finanziare la ricerca contro la FOP.
Livorno, come da promessa, in prima fila.
Fa male, ma Piombino è operaia ed è abituata al fuoco, al calore e alle scottature. Alla fine la lega di ferro e carbonio diventerà acciaio e non importerà quanto tu ti sia bruciato.
“Insieme a te Capitano per la più grande delle battaglie”.


Link: https://www.minutosettantotto.it/andrea ... a-acciaio/
grazie Piazza, ho la pelle accapponata e gli occhi lucidi
Avatar utente
piazza
Messaggi: 10199
Iscritto il: ven 15 gen 2021, 20:05

Re: Compagni calciatori

Messaggio da piazza »

Amilcare Ferretti
Immagine


Essere del Torino non è una forma di ribellione fine a se stessa. Forse non è nemmeno una forma di ribellione vera e propria, forse è essere del Torino vuol dire essere del Torino e basta.

Oggi ci appare come un atto ostinato e contrario perché mezza Italia tifa l’altra squadra torinese, ma non è affatto così. È innegabile, però, che essere del Torino non sia banale o monotono. Il Toro, per chi lo sostiene, è uno stile di vita. Nei Duemila, forse anche a causa delle alterne fortune delle squadre della città, questo particolare si è visto in misura minore, ma cinquant’anni fa parteggiare per il Toro o per la Juve significava appartenere a due mondi diametralmente opposti.

I bianconeri erano la squadra della Fiat, i giocatori erano belli e vincenti, mai schierati politicamente se non di nascosto. Il Torino era già quello che la leggenda tramanda di bocca in bocca: l’estro, la sregolatezza, il genio. Quella variabile impazzita che spezza l’ordine delle cose.

Il Torino era Luigi Meroni, lui sì che era un ribelle. Ma di Meroni, ormai, è stato già detto tutto. Assieme a lui negli anni Sessanta gioca in granata un figlio d’arte, il padre – ala sinistra negli anni Trenta – era stato nientedimeno che il giocatore più prolifico nella storia del Messina, e lo è tutt’oggi.

Il figlio invece ha un ruolo meno poetico, il suo compito è fare legna in mezzo al campo e, quando capita, impostare la manovra. Si chiama Amilcare Ferretti, lo chiamano tutti Mirko. È nato ad Alessandria e ha iniziato a giocare tra la Sicilia e Canelli, per poi passare al Torino dove trova, per l’appunto Meroni. Tanto La Farfalla è bohemienne e sotto i riflettori, quando Ferretti è schivo e operaio.

Si diverte a leggere i quotidiani, è uno dei pochi calciatori a informarsi sui giornali. Lo vedono spesso a leggere, ha sotto braccio Vie Nuove o L’Unità. Sono giornali molto vicini al Partito Comunista Italiano, che in quel momento vive una svolta: è morto Togliatti, il segretario diviene Luigi Longo, nel segno della continuità con il Migliore. Amilcare Ferretti detto Mirko è comunista e non lo nasconde, nel segreto dell’urna Dio non lo guarda e Stalin sì.

Sul finire degli anni Sessanta si va ridefinendo la figura del calciatore. Il Torino ha un ruolo di primo piano, perché un calciatore non è più solo un giocatore, sta diventando un’icona. Se Meroni è il quinto Beatles, Ferretti è l’anima politica dello spogliatoio. Magari un po’ accigliato e severo, ma sempre deciso e orgoglioso. Non sbandiera la sua fede politica ai quattro venti, non fa aperture teatrali o retoriche, rimane sempre fedele alla linea – come farà per poco tempo un suo famoso omonimo, che in seguito però sposterà il tiro da Berlinguer a Benedetto XVI.

Questo suo rimanere in disparte ma essere ugualmente decisivo segnerà la sua vita, passata principalmente a lasciare umilmente la scena ad altri. Nel Torino di Nereo Rocco è vice capitano, perché la fascia va sul braccio di Giorgio Ferrini, altra figura che incarna al massimo le virtù granata e sulla quale bisognerebbe aprire una sterminata bibliografia.

Il rapporto tra Ferrini e Ferretti è straordinario, sono entrambi esempi di attaccamento alla maglia. Addirittura lo storico capitano concede la fascia al compagno in qualche – rarissima – circostanza. Non mollano mai, soprattutto con la Juventus. Famoso è un siparietto in un derby del 1963 quando Ferretti viene colpito da Castano e Ferrini corre a dirimere il parapiglia. Poi, vabbeh, lo dirime a modo suo ma questo non conta.

Diventa un simbolo del Torino pur rimanendoci solamente quattro anni, ma sono quattro stagioni di fervida passione, trincerata dietro alla figura di calciatore proletario, con il cuore – granata, rigorosamente granata – molto più a sinistra del normale. Una variazione sul tema per il calcio italiano e per la città, abituata allo strapotere della Fiat e al calcio rigoroso degli Agnelli in tenuta bianca e nera.

Lo raccontano straordinariamente Michele Ruggiero e Alessandra Demichelis in “Una vita da secondo. Storia di Mirko Ferretti, l’allenatore nell’ombra“: Ferretti è il prodromo del cambiamento. Non a caso in quegli anni Sergio Campana fa nascere l’Associazione Italiana Calciatori. Amilcare detto Mirko si ritira nel 1967 con la maglia dell’Alessandria, quasi a farlo apposta per vivere appieno il ’68. E lì sì che il cambiamento avviene.

Il suo personale punto di svolta avviene dopo aver tentato la sua carriera da allenatore in solitaria. Poco dopo aver vinto il campionato di Serie D con l’Albese, nel 1976 arriva una chiamata importante, è quella del Torino. Guida la Primavera del suo Toro, ci rimane due anni e poi ecco che inizia il magico sodalizio con Gigi Radice, che a Torino qualche ricordo l’ha lasciato. Fa il secondo al tecnico lombardo e rimane con lui quattro anni, condividendo le gioie granata e l’esonero al Milan, con in mezzo il Bologna.

Sostituisce pure Radice quando questi è vittima del tremendo incidente in cui perde la vita Barison. Prende le redini per quattro giornate nel 1978-79 e conclude la stagione al quarto posto, un punto dietro alla Juventus. Anche in questo caso una piccola deviazione alla sua carriera da secondo, a suo agio nel dare i consigli a Radice e godersi la mimica del suo collega.

Essere il vice però non vuol mica dire rimanere fermi, è un ruolo fondamentale, è il collante tra tecnico e squadra. C’è da sgobbare parecchio ma per Ferretti non è un problema perché lo faceva in campo e lo ha fatto per tutta la sua vita. La sua simpatia per il PCI gli causa non pochi problemi: verso di lui nascono pregiudizi e ostacoli. Non da parte del democristiano Rocco, che per tutta la sua militanza torinese non gli ha mai negato la maglia da titolare.

C’è chi pensa che la sua fede politica gli abbia precluso molte possibilità. Di sicuro non lo ha aiutato, questo è poco ma sicuro. Ma Amilcare detto Mirko non ci pensa, e oggi a 82 anni ricorda sorridente il periodo granata, quando i calciatori si confessavano da lui, quando era suo il compito di tenere unito lo spogliatoio. In un calcio che stava per cambiare, Ferretti è stato un punto di riferimento per i tifosi di sinistra e per i fan del Toro in generale. Ha incarnato i valori del Torino e ha fatto scattare in molti l’amore per un colore, il granata, che rischiava di rimanere offuscato dal bianconero.



Link: https://www.minutosettantotto.it/amilca ... llenatore/
Avatar utente
piazza
Messaggi: 10199
Iscritto il: ven 15 gen 2021, 20:05

Re: Compagni calciatori

Messaggio da piazza »

GUIDO MAZZETTI

Lo metto anche qui:

PERUGIA – Primavera del 1944. Un giovane, in pieno corso Vannucci a Perugia, distribuisce manifestini del Comitato Liberazione Nazionale. Improvvisamente una pattuglia tedesca, sbucata da uno dei vicoli laterali, lo blocca e gli sequestra i fogli ancora stretti in mano. L’azione risulta così rapida che il fermato, sebbene sia un atleta (un calciatore), non riesce neanche a provare uno scatto, men che meno a fuggire. Il testo dello stampato invita i “fascisti moderati”, che cioè non si fossero macchiati di azioni criminose, a non lasciare l’Umbria per raggiungere Salò, al seguito di Mussolini, ma di restare in città per concorrere alla rinascita del paese: non avrebbero corso alcun rischio di ritorsioni. L’arrestato – subito trascinato al Comando tedesco, insediato all’Hotel Brufani – è Guido Mazzetti (nato a Bologna il 24 giugno 1916), sposato con una perugina, Marcella Zorzi e residente in via Maestà delle Volte, al numero 9. Il calciatore (i campionati erano stati bloccati), ultima società di militanza l’Udinese, aveva preso domicilio dopo l’8 settembre 1943 a Perugia – ospite della famiglia della moglie – città in cui, in precedenza, aveva indossato la maglia del Grifo, quale centrocampista.

Proprio la suocera, la signora Cesira, seppe per prima dell’arresto del genero e corse, ansante, al Brufani per cercare di parlare col comando tedesco. Nessuno la volle ricevere. Riuscì però a scorgere Guido che, da una finestra dell’albergo, le lanciò un foglietto su cui aveva frettolosamente vergato poche parole: “Corri a casa e brucia tutte le mie carte…”. Al numero 9 di via Maestà delle Volte, nel cuore dell’acropoli, da qualche mese si tenevano, molto spesso, le riunioni degli antifascisti. L’abitazione di un calciatore di professione, già abbastanza conosciuto (aveva iniziato nelle giovanili del Bologna per poi passare al Parma, al Savoia, allo Stabia, al Perugia, all’Udinese), non aveva suscitato sospetti nell’Ovra, la polizia politica del regime. Per cui una parte degli archivi e una serie di carte e di manifesti (tra cui un gran numero di volantini, che in parte gli erano stati sequestrati in corso Vannucci) erano stati lasciati in custodia a Mazzetti, affiliato al Partito d’Azione. La signora Cesira rientrò a passo lesto a casa e gettò sul fuoco tutti i documenti che rinvenne. Poi, sempre camminando velocemente, si ripresentò al comando.

Attese a lungo, ma alla fine un ufficiale la ricevette. Perorò, l’anziana signora, la causa del genero. “E’ un giovane di soli 27 anni, è sposato, ha un bambino di due anni (Luciano, che diventerà docente universitario) ed uno in arrivo (Guglielmo, detto Mimmi, da grande conduttore tv e giornalista). Non ha mai fatto del male a nessuno”, spiegò in fretta e con voce tremante, sperando di far breccia nel cuore del tedesco. La fredda replica dell’ufficiale nazista, stretto nella sua divisa nera di SS, risultò cinica e tagliente: “Se suo genero, ora sotto interrogatorio, fornirà i nomi dei suoi complici e di chi ha scritto e stampato i volantini, non lo fucileremo. In caso contrario la sua sorte è segnata…”. Poche ore più tardi la signora Cesira, rimasta fuori dell’albergo, vide allontanarsi una macchina scura con all’interno, ammanettato, il genero. L’auto, per raggiungere il luogo della fucilazione, transitò proprio lungo via Maestà delle Volte, sotto le finestre dell’abitazione degli Zorzi e dei Mazzetti.

Nella vettura col condannato a morte senza processo, non viaggiavano le SS, ma alcuni uomini del capo della provincia-prefetto-federale Armando Rocchi (nominato il 25 ottobre 1943 ed in carica sino al 16 giugno 1944). Già perché il gerarca, subito informato dell’arresto del calciatore, era intervenuto e si era fatto consegnare dai tedeschi il fermato. I congiunti precipitarono nella più cupa disperazione: Marcella, la moglie di Guido, col primogenito in braccio e in attesa del secondo figlio, si disperava e minacciava, tra le lacrime, di suicidarsi, mentre uno dei cognati (aspetto singolare: dei due fratelli Zorzi uno figurava tra i comunisti, l’altro simpatizzava per il Fascio) aveva impugnano una pistola, pronto a compiere una pazzia… La vettura nel frattempo raggiunse il Cimitero Monumentale. Il calciatore, spintonato dai repubblichini, fu costretto ad inginocchiarsi accanto alla tomba di un partigiano giustiziato pochi giorni prima, Marcello Di Lisa.

Il ras del gruppo gli rivolse un’ultima, laconica, domanda: “Chi sono gli autori del volantino?”. Mazzetti non aprì bocca. Pochi istanti e poi il silenzio fu rotto da due colpi secchi di pistola. Il prigioniero si piegò in avanti, crollando al suolo: non era morto, soltanto svenuto. Vittima di una esecuzione mimata, ma al tempo stesso di una brutale forma di tortura. Secondo alcune fonti l’arma sarebbe stata caricata con proiettili a salve, altri riferirono che l’esecutore – seguendo gli ordini impartiti da Rocchi, intenzionato a salvare la vita dell’apprezzato centrocampista, ma al contempo a riservargli una tremenda lezione – aveva indirizzato i colpi a terra, sfiorando semplicemente l’orecchio destro del giustiziando. Sta di fatto che, avendo il prigioniero perso conoscenza, i fascisti – dei quali pare fosse a capo Adolfo M., braccio destro del capo della provincia – condussero il giovane, tra lazzi, frizzi e slogan fascisti, al Pronto Soccorso dell’ospedale di Monteluce, a poche centinaia di metri dal cimitero, dove lo spintonarono fuori dall’abitacolo, ripartendo con stridore di gomme e lasciandolo libero. Tanto che il giorno dopo Mazzetti, dimesso, potè rientrare a casa sua senza ulteriori problemi.

I colpi di scena, tuttavia, non erano ancora finiti. Qualche tempo dopo, mentre il “sor Guido” – come poi lo chiameranno i perugini – si trovava in casa coi suoi familiari, all’uscio bussò una “camicia nera”, soggetto noto per essere tra gli uomini più vicini al temuto capo del fascismo perugino. Fu fatto entrare e il nuovo arrivato, pomposamente, annunciò: “Sua eccellenza il prefetto Armando Rocchi, in partenza per Salò, desidera che tu Mazzetti lo vada a salutare. E’ qui sopra, in piazza Piccinino…”. La moglie e la suocera lo pregarono, a mani giunte, di non andare, i cognati gli suggerirono di ignorare l’invito tanto i repubblichini stavano per abbandonare la città, pressati dall’avanzata degli anglo-americani. Tuttavia Mazzetti, sia pure con la morte nel cuore, si alzò dalla sedia e raggiunse, coraggiosamente ma con la mente turbata e il cuore che batteva forte, il luogo dell’appuntamento. Rocchi lo aspettava, in piedi ed in uniforme da gerarca con giacca in orbace, fez e pistola al cinturone, accanto ad una vettura col motore acceso.

“Mazzetti, – queste in sintesi le parole di Rocchi, combattente della prima guerra mondiale, inviato in Spagna quale comandante di Battaglione in aiuto di Franco e reduce dal fronte della Dalmazia e del Montenegro – sto partendo per il Nord, dove la patria mi chiama. Voglio però stringerti la mano perché ti sei dimostrato un uomo di coraggio. Intendo darti, tuttavia, un consiglio. Tu sei uno sportivo e come calciatore ci sai fare, lascia stare la politica, con cui ci si può fare male, molto male…”. Guido Mazzetti restò anche stavolta in silenzio, ma rimase fedele ed attivo al suo credo di Azionista ed antifascista. Ed il 20 giugno 1944, quando le truppe alleate liberarono definitivamente il capoluogo umbro, del comitato ufficiale di accoglienza a Palazzo dei Priori, faceva parte pure lui. Il famoso generale inglese Harold Alexander firmò il suo “Certificato di Patriota”.

Non solo: per alcuni mesi, gli venne affidato persino l’assessorato alla Pesca del Trasimeno. A testimonianza della generosità di quest’uomo – apparentemente brusco, ben poco diplomatico, ma leale, schietto e sincero – nei mesi successivi al passaggio del fronte diede ospitalità, a casa sua, all’ex calciatore perugino Peppino Vitalesta, legato al regime fascista e ricercato dai partigiani comunisti, che intendevano fargli pagare il suo passato di “camicia nera”. Subito dopo Mazzetti – che fino all’ultimo continuò ad esprimersi con uno spiccato accento bolognese – riprese l’attività sportiva ripartendo dal Napoli, per tornare dopo aver militato nel Savoia e nel Siracusa, a Perugia, prima di chiudere la carriera con l’Acireale. Proprio, in Sicilia, iniziò la sua carriera di allenatore, ancora più luminosa di quella di calciatore: quaranta anni nei quali si guadagnò il titolo di “mago dei poveri” (non retrocesse mai e salvò diversi club sull’orlo della retrocessione) e detiene ancora oggi il record di panchine in serie B (626).

Guido Mazzetti si è spento a Perugia, all’età di 81 anni, il 24 febbraio 1997.



Link: https://www.ilpuntoquotidiano.it/sor-gu ... ifascista/
Avatar utente
19=L=15
Vincitore Pallone d'Oro
Messaggi: 2434
Iscritto il: dom 20 feb 2022, 19:43
Località: Livorno

Re: Compagni calciatori

Messaggio da 19=L=15 »

Ancora EZIO VENDRAME

Ezio Vendrame e Piero Ciampi, amici maledetti
Vino, donne, poesia e pallone. In memoria di Ezio Vendrame e Piero Ciampi.


Il ripudio del calcio, in quanto pratica gretta, volgare e occasionalmente violenta, è un classico dell’intellettuale italiano più snob che acculturato. Analogamente, il tifoso da bar sport non si lascia certo sedurre dal fascino della poesia. Ci sono però eccezioni, spiragli in cui poesia e calcio riescono a convivere. Spazi angusti in cui il gioco del pallone raggiunge le sue interpretazioni più intense, liriche, romantiche e, soprattutto, genuine.

Nella storia del calcio italiano è pieno di poeti calciatori e calciatori poeti, affascinanti deviazioni dall’ordinario. Pier Paolo Pasolini, come è noto, vede nel football un complesso e straordinario fenomeno di costume che va oltre il mero intrattenimento.

«Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro»

In Pasolini si fondono il ragazzo appassionato che può giocare fino a sei o sette ore al giorno sui campi di provincia sognando il formidabile Bologna di Bulgarelli e l’attento scrittore degli Scritti Corsari, o l’inarrivabile cineasta di Salò. Nel calcio Pasolini vede ciò che l’antropologo Britannico Desmond Morris racconta nel fondamentale La Tribù del Calcio. In effetti, il calcio e la poesia non sono nulla se lasciati a loro stessi, isolati da un più vasto contesto sociale.

Come uomini di cultura annoverano il calcio tra le proprie principali passioni (Pasolini, Bertolucci, Scola), così fanno diversi calciatori che, specialmente tra i ’60 ed i ’70, non celano il proprio amore per le arti. Tra questi c’è Ezio Vendrame, uno dei maverick del calcio italiano degli anni ’70.

Nato come Pasolini in Friuli, per la precisione a Casarsa, nel 1974 Vendrame raggiunge la propria notorietà calcistica con il Lanerossi Vicenza. 46 presenze e 1 goal, molta fantasia e soprattutto tante donne. Centinaia quelle che ha portato a letto, tutte amate a sentir lui. Il concetto di amore di Vendrame, però, non è così scontato. Le ragioni? L’incontro a metà anni ’70 con il cantautore livornese Piero Ciampi. Un incontro che segnerà profondamente la vita del calciatore, a cui Ciampi dona la sua definizione di amore.

Amare significa capire le sofferenze di chi ti sta vicino.

Una frase che è un macigno, scolpita sulla pietra come ogni parola di Piero Ciampi. Un’amicizia nata tra strade buie e bottiglie vuote e consolidata sul rettangolo verde, precisamente quello dell’Appiani di Padova dove Vendrame gioca a partire dalla stagione 1975-76.

Un pomeriggio l’ala del Padova, mentre avanza a centrocampo palla al piede, nota sugli spalti l’amico Piero che è venuto vederlo giocare. A questo punto si consuma uno degli episodi più profondi e significativi del calcio italiano. Vendrame arresta l’azione, ferma la palla con le mani e di fatto interrompe la partita. Si rivolge verso la tribuna per salutare Piero Ciampi. Una sorta di inchino, come quello delle navi alla costa, un tributo alla grandezza del cantautore. Vendrame motiva il gesto con queste parole:

“Il gioco del calcio diventa una cosa volgarissima di fronte ad un poeta come Piero”.

Vendrame dopotutto se ne intende. Lui è uno scrittore, una penna prestata al pallone, più che un calciatore prestato alla poesia. Cosa ci si sarebbe potuti aspettare, d’altronde, da uno che considera i tre migliori calciatori al mondo essere Diego Armando Maradona (fin qui niente di strano), il beatnik granata Gigi Meroni ed il folle donnaiolo capellone Gianfranco Zigoni?

Pasolini – nella cui visione del pallone gli atleti sono paragonati alle lettere dell’alfabeto che dialogando tramite azioni e passaggi danno vita a discorsi complessi – distingue i calciatori tra prosatori (Bulgarelli) e poeti (Riva). Vendrame fa senza dubbio parte della seconda categoria. In un’intervista, Vendrame si paragona a Pasolini dichiarando:

“Io a Casarsa non metto piede da anni. Ricambio così l’odio della mia gente. Pasolini fuggì e ritornò in orizzontale, nel senso della bara. Seguirò lo stesso percorso”.

A dire il vero a Casarsa Vendrame ci è poi tornato. Fino a ieri viveva in un beatnik, un monolocale di campagna in affitto; il concetto di proprietà non gli è mai andato troppo a genio. Guidava una Golf scassata degli anni ’80 ed allenava le giovanili locali. L’amicizia tra Ezio Vendrame e Piero Ciampi purtroppo non dura a lungo, a causa della prematura morte del cantautore, che proprio la notte precedente il suo decesso ha un diverbio con il calciatore. Ciampi si presenta come di consueto ubriaco a casa di Vendrame il quale, ormai insofferente agli sproloqui annaffiati di vino di Ciampi, caccia via l’amico.

“Ma Ezio, io sono un poeta”.

Come ricordava Vendrame, dedito alla poesia fino all’ultimo istante della propria vita, Ciampi era per lui maestro. Due personaggi unici, che mai cedettero alle tentazioni di opportunità commerciali. Sempre controcorrente, ma mai snob o presuntuosi. Due uomini di cultura più inclini ad una bottiglia di vino consumato in strada che ad uno champagne in un salotto borghese. Da un lato il George Best mancato del calcio tricolore, dall’altra lo Scott Walker (o Charles Aznavour) in sordina della canzone italiana, due artisti troppo spesso dimenticati dalla cultura ufficiale. E che ora, consegnati al cielo, solo Dio può ascoltare.

Link: https://www.rivistacontrasti.it/ezio-ve ... io-musica/
"Bandera" amaranto, stretta in fronte, carica di dolor, ma terrà sempre fronte
Avatar utente
Dattero
Messaggi: 5876
Iscritto il: lun 1 feb 2021, 15:52
Località: Livorno

Re: Compagni calciatori

Messaggio da Dattero »

Bellissimo articolo che unisce Vendrame al nostro Ciampi e ci racconta di un'amicizia tanto improbabile quanto profonda.
Il calcio ha mille sfaccettature e ci parla di molto altro al di là di un pallone che rotola. Chi non lo capisce non ha capito un cazzo.
Cianciua ci fai veni' l'antua
Avatar utente
Nenciodamus
Messaggi: 594
Iscritto il: lun 18 gen 2021, 23:00
Località: Livorno

Re: Compagni calciatori

Messaggio da Nenciodamus »

Belle storie!! :D
"La questione morale esiste da tempo e dalla sua risoluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico." Enrico Belinguer
Rispondi

Torna a “Resto del Calcio”