Compagni calciatori

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PAOLO SOLLIER

Figlio di un dipendente dell'azienda elettrica, crebbe nel quartiere Vanchiglietta di Torino dove, in giovane età, si avvicinò all'impegno sociale col Gruppo Emmaus e con Mani Tese, che definisce «gruppi cattolici del dissenso». Lasciata l'associazione, nel 1968 si iscrisse alla facoltà di scienze politiche, che però abbandonò dopo un anno per lavorare allo stabilimento Mirafiori della FIAT.
Successivamente svolse l'attività di calciatore a tempo pieno, senza però rinunciare all'impegno politico: «la critica principale che mi è stata rivolta [è come si conciliava la mia militanza a sinistra con i guadagni da calciatore, ndr], ma il mio era lo stipendio di un buon impiegato. Se mi sentivo un privilegiato era per un altro motivo, perché facevo il lavoro dei miei sogni, il calciatore. Una fortuna che capita a pochi».
La sua notorietà è dovuta principalmente al libro Calci e sputi e colpi di testa, pubblicato nel 1976, nel quale il calciatore racconta la propria militanza in Avanguardia operaia e descrive il mondo del calcio da un punto di vista alternativo rispetto ai colleghi:[3][4] nell'occasione venne deferito dalla FIGC. Diventa emblematico il suo saluto col pugno chiuso rivolto ai tifosi del Perugia, un gesto che gli provoca l'antipatia delle curve di stampo neofascista,[3] in particolar modo quella della Lazio;[2] ebbe a ricordare anni dopo: «non era propaganda. Non era un gesto indirizzato ai tifosi ma a me stesso, per ricordarmi ogni volta chi fossi e da dove venivo. E per far sapere ai miei amici che restavo quello di sempre. Il ragazzo che al campetto, tanti anni prima, così si rivolgeva a loro. Con quello che per noi era un segno di riconoscimento».
Dopo il ritiro dall'attività agonistica, collabora con quotidiani e riviste, tra cui Reporter, Il Mattino di Padova, Tuttosport e MicroMega. Allena per qualche anno squadre di categorie inferiori e nel 2008 pubblica il libro Spogliatoio, scritto a quattro mani con Paolo La Bua, ed esce la riedizione di Calci e sputi e colpi di testa, completata da articoli dell'epoca e recensioni.


Link: https://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Sollier



Paolo Sollier: il trequartista militante

«Giocare a calcio o leggere i quotidiani sportivi era una cosa da cazzari. Peccato, perché alla fine il Sessantotto nel calcio è stato solo una questione di look»
Avanguardia operaia e avanguardia calcistica. Paolo Sollier è stato il calciatore che usava i pugni per salutare il pubblico. Bastarono quel gesto, l’appartenenza ad Avanguardia operaia, l’abbonamento al Quotidiano dei lavoratori, i capelli lunghi e la barba ribelle per diventare un’icona: del calciatore impegnato, ma soprattutto di se stesso.

Perché la verità che racconta Sollier, allenatore della Nazionale degli scrittori ed ex calciatore in pensione, è «che il Sessantotto neppure sfiorò il mondo del calcio. Nel 1969 lavorai otto mesi alla Fiat Mirafiori e in autunno andai a giocare in serie D con la Cossatese. Facevo l’operaio e il calciatore. Entrare negli spogliatoi, indossare maglia e scarpini, significava entrare in un altro mondo. Quello che stava accadendo nella vita di tutti i giorni, restava fuori. Poi mi rivestivo, salutavo tutti e tornavo nell’ altro mondo. E’ in questa situazione che ho vissuto e alla fine ci avevo fatto anche l’abitudine. Io avevo cominciato ad occuparmi del sociale nel mio quartiere, la Vanchiglia, in un’organizzazione cattolica che si chiama Mani Tese. La nostra attività era il volontariato. Crescendo mi sono avvicinato alla sinistra: potere operaio, avanguardia operaia, democrazia proletaria».

«Ho incontrato pochi calciatori con i quali si parlava di politica. A Perugia c’era Raffaeli, che veniva da una famiglia iscritta al partito comunista. Poi c’erano quelli che simpatizzavano per i gruppi dell’extra-sinistra come Blangero, Pagliari, Codogno, Ratti, Galasso, Montesi».

«Nel 1974 o nel 1975, non ricordo bene, organizzammo un paio di riunioni per provare a creare qualcosa di nuovo, ma alla fine ci guardammo in faccia e dicemmo: ma che stiamo facendo? Dei grandi calciatori di quell’epoca, solo Gianni Rivera mostrò un’apertura e un interesse a quanto stava accadendo: la sua attività post calcio è la conferma che avesse una buona testa. Degli altri, nessuna notizia».

Che cosa è stato allora il Sessantotto per il calcio? «Un’occasione persa. Era un mondo a parte, con i suoi privilegi da difendere e per questo era impermeabile alla realtà quotidiana. Ma anche la sinistra ha le sue colpe: a quei tempi considerava lo sport una cosa da qualunquisti, un momento di disimpegno. Giocare a calcio o leggere i quotidiani sportivi era una cosa da cazzari. Peccato, perché alla fine il Sessantotto nel calcio è stato solo una questione di look. Capelli lunghi, barba, baffi e maglietta fuori dai calzoncini. Tutto qui».

Sono passati 40 anni e si torna a parlare del Sessantotto:
«La cosa che mi dà più fastidio è il revisionismo di questi tempi, le teorie dei voltafaccia come Giuliano Ferrara. Sembra che il Sessantotto abbia generato solo quei mille cretini che presero le armi e spararono, dimenticando tutto il resto. E invece il Sessantotto ha contribuito al progresso sociale e civile dell’ Italia. Penso al femminismo, all’ecologia, ai movimenti per i diritti civili: tutto ciò nacque allora. Il fallimento, se di fallimento è corretto parlare, è che ci illudemmo che si potesse cambiare il mondo. Il mondo non è cambiato, però il Sessantotto lo ha migliorato».

«Il calcio di oggi? Non mi dispiace quello che si vede in campo, il resto m’infastidisce. Si è consegnato alle televisioni e la tv ha cambiato tutto, a cominciare dal rito della domenica. Preferivo il calcio dei miei tempi, quando si giocava tutti alla stessa ora. Meglio l’abbuffata che lo spezzatino. Tra i giocatori italiani scelgo Totti, il migliore in assoluto, e Pirlo, poi mi piace Ibrahimovic, anche se talvolta esagera nei personalismi. Zidane mi faceva impazzire, ma la stima è finita con la testata a Materazzi. Con chi scambiare due chiacchiere? Con Damiano Tommasi. Mi piacerebbe incontrarlo. Il resto è come ai miei tempi. Un muro di gomma».


Link: https://storiedicalcio.altervista.org/b ... visto.html


Resiliente da sempre: Paolo Sollier, il compagno centravanti

Compie oggi 74 anni Paolo Sollier, l’attaccante piemontese che in carriera non ha mai nascosto le sue idee politiche, diventando un simbolo con il suo pugno alzato. Per l’occasione vi raccontiamo la sua storia.

L’autografo non lo fece mai a nessuno, nemmeno a un bambino; era già un gesto politico, quel rifiuto programmatico. Perché secondo lui il calciatore non andava idolatrato, come già accadeva da tempo in un’Italia che, dopo la ricostruzione, aveva attraversato il boom economico, qualche riflesso della rivoluzione culturale e ora, metà anni settanta, si ritrovava nel bel mezzo di contrapposizioni dure, oltranziste, sempre violente nei toni e spesso negli atti.

Anni settanta, una tuta blu, una coscienza di classe acquisita attraverso l’esperienza nell’associazionismo, peraltro di matrice cattolica, le buone e sistematiche letture, la voglia di comprendere le storture della società, per poi poterle combattere, dopo averle denunciate. Al contempo, il borsone da calcio: accostamento eretico, elemento incongruo, tanto per il buon senso borghese quanto per il dogmatismo rigido della sinistra più oltranzista.

In mezzo a tutto questo si districava e per la verità si districa ancora il fisico compatto di Paolo Sollier, piemontese di Chiomonte, attaccante di rendimento, più che realizzatore, che oggi ha una barba meno folta e meno scura ma che continua a dire e pensare le stesse cose di cinquant’anni fa, più o meno, in un mondo così tanto differente, all’interno del quale l’età gli rende più facile praticare l’arte, se così possiamo chiamarla, della coerenza.

Forse non saremmo qui, a raccontare di lui, calciatore non memorabile, professionista dalla carriera dignitosa, se non avesse scelto di vivere nel modo che a lui è sembrato il più giusto, il più coerente con i principi che ha cercato di onorare. Che poi in un ambiente abituato ai cliché, come quello del calcio professionistico nell’Italia degli anni che venivano acquisendo una sfumatura color piombo, lui venisse percepito come un dissidente, una scheggia impazzita, un elemento non previsto dal “sistema” era persino scontato, oltre che inevitabile. Così dedito a perseguire il modo di vivere che più gli piaceva, non poteva permettersi il lusso di piacere anche al resto del mondo che frequentava.

Cinzano, Cossatese, Provercelli: le sue maglie fino al 1974: anni in cui, oltre alla divisa di gioco, aveva indossato anche la tuta da operaio, alla Fiat Mirafiori: scarpe bullonate, si diceva una volta, e coscienza di classe, si diceva sempre quella volta lì. Lui stesso seppe tenerle separate, come se fosse capace di sdoppiarsi, per frequentare due mondi così distanti.

Cominciò a salutare col pugno chiuso, all’ingresso in campo come dopo ognuno dei suoi gol non così numerosi; più per ricordarsi sempre chi era che per sfidare qualche banale cliché, sin da quando non era ancora approdato al professionismo.

Poi quel pugno trovò la ribalta di una promozione in Serie A e di un campionato di tutto riguardo, dal 1974 al 1976, con la maglia del Perugia più memorabile che si ricordi, quello allestito da Silvano Ramaccioni e guidato in panchina da Ilario Castagner. Non cambiò il saluto, si moltiplicarono i suoi significati, crebbe la sua portata simbolica. Eppure quel pugno era anche un guscio, per così dire, all’interno del quale Paolo Sollier voleva continuare a racchiudere la sua identità di uomo pensante, che sceglieva il proprio modo di rapportarsi al mondo e alla società in cui viveva; il tutto in un calcio in cui quasi tutti gli altri protagonisti sembravano programmati per non mettere mai il naso fuori del rettangolo di gioco. E anche come uomo di sinistra seppe avere vedute più ampie della maggior parte dei compagni, in questo caso non quelli di squadra ma quelli di Avanguardia operaia e degli altri movimenti radicali dell’epoca: a loro ha sempre rinfacciato la colpa di aver snobbato il calcio e lo sport in generale, declassandoli a terreno privilegiato del disimpegno e del qualunquismo.

Iconico, come dissidente, suo malgrado, soprattutto quando dopo l’approdo alla massima serie la ribalta dei media nazionali cominciò a considerarlo come l’insetto, rarissimo, da osservare attraverso la lente del microscopio. Per questo Paolo Frajese, durante una storica puntata de “La domenica sportiva” lo guardava come avrebbe guardato un marziano; per questo la Curva Nord della Lazio gli riservò lo striscione con la parola “Boia”, quella volta che il Perugia portò sul terreno dell’Olimpico dieci avversari e un nemico politico.

Rimini, Pro Vercelli, Biellese, Cossatese: il prosieguo della sua parabola da calciatore, dopo quel Perugia che sarebbe continuato a crescere, dopo di lui. Nel frattempo, un libro, uscito nel 1976, in cui lui, ancora più marziano per averlo scritto e, innanzitutto, pensato, racconta dal di dentro l’ambiente del calcio e, in controluce, una società in via di radicali cambiamenti: “Calci e sputi e colpi di testa”, dove la ridondanza delle congiunzioni sembra già preannunciare la ricchezza degli aneddoti scritti e descritti, peraltro in una prosa apprezzabile. Più di un giornalista accolse l’opera con fastidio, soprattutto quando si capì che Sollier sapeva scrivere meglio di parecchi professionisti della carta stampata. Tra loro, un paio di firme celebri ancora oggi, nonché ideologicamente incompatibili con l’autore.

Ha allenato in provincia, dopo aver smesso di giocare; non a grandi livelli ma sempre a modo suo, tra Piemonte e Lombardia. Guida la Nazionale degli scrittori, che nel nome omaggia Osvaldo Soriano; collabora con varie testate; nel 2008 ha scritto “Spogliatoio”, con Paolo La Bua.

“Le idee le lascio ai giovani, io mi nutro ancora di ideali” dice oggi di sé Paolo Sollier che, se giocasse ai nostri giorni, il pugno chiuso lo alzerebbe con ancora più gusto e maggiore convinzione.


Link: https://giocopulito.it/resiliente-sempr ... ntravanti/








se non l'avete letto vi consiglio vivamente il suo libro:
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MAURIZIO MONTESI

Ideologicamente legato alle formazioni extraparlamentari di sinistra, Montesi è stato uno dei pochi calciatori a segnalarsi per impegno politico e per aver più volte espresso opinioni a giornali e settimanali, concernenti il mondo calcistico "dietro le quinte".

Nel 1978 rilascia un'intervista al quotidiano Lotta Continua nella quale accusa i dirigenti della squadra in cui militava, l'Avellino, di utilizzare il calcio a fini clientelari e i tifosi locali di non far niente per opporvisi.

Il giorno dell'omicidio del tifoso laziale Vincenzo Paparelli, in un derby Lazio-Roma del 28 ottobre 1979, Montesi, titolare della Lazio con la maglietta n.8, è tra coloro che ritengono di non dover scendere in campo, in una simile situazione. Poi viene convinto dalla maggioranza dei compagni di squadra che il suo gesto isolato non avrebbe potuto cambiare le cose.

In una seconda intervista al settimanale Panorama del 12 novembre 1979, Montesi accusa le società di calcio di sostenere i gruppi ultras con ingressi gratuiti allo stadio, pullman per le trasferte e finanziamenti; attacca la classe politica che avrebbe paura di inimicarsi il serbatoio elettorale dei tifosi e i magnati del calcio che, già allora, avrebbero trasformato uno sport popolare come il calcio in una macchina per far soldi e, pertanto, di non aver alcun interesse a fermare l'escalation della violenza.

Il 4 marzo 1980 rilascia un'altra intervista a la Repubblica nella quale rivela con qualche settimana di anticipo rispetto all'inchiesta giudiziaria quello che sarà definito lo scandalo del Totonero. Per tutta risposta, Montesi risulterà coinvolto in tale vicenda e squalificato per quattro mesi per omessa denuncia.


Link: https://it.wikipedia.org/wiki/Maurizio_Montesi



Maurizio Montesi: il calciatore scomparso

Questa è la storia Maurizio Montesi, nato a Roma il 26 luglio 1957 e cresciuto nelle giovanili della Lazio, all’ombra del boom di quella squadra indimenticabile che arrivò a vincere lo scudetto nel 1973-74, legata alle prodezze di Chinaglia e alla saggezza del compianto Maestrelli. Chiuso e di poche parole, ancorché modesto tecnicamente come calciatore di centrocampo, arrivò comunque grazie alla sua grinta di combattente ad essere aggregato ai titolari nella stagione 1976-77, senza peraltro poter mai esordire in A con la maglia biancazzurra in quella stagione.

Sono di quei giorni i suoi primi atteggiamenti insofferenti nei confronti del «sistema» e soprattutto le prime dichiarazioni di aperta contestazione all’indirizzo dei personaggi più importanti della società in cui è capitato. Si definisce proletario e figlio della Roma abusiva, veste in maniera volutamente trasandata, si lascia crescere baffi e capelli, giura di odiare il divismo del pallone.

Da Roma e dalla Lazio deve andarsene. Accetta nella stagione successiva il trasferimento ad Avellino, purché non pretendano da lui che porti la divisa sociale, purché non gli rompano le scatole e non lo mettano all’indice com’è stato nella Lazio «dove per far carriera bisognava essere di destra ed essere ciecamente obbedienti a Wilson che distribuiva premi, punizioni, onori e cariche interne a sua discrezione».

«Io sono nato tra i casermoni della bassa borghesia, sono figlio della spaventosa speculazione edilizia di Roma — racconta — mio padre è impiegato al Ministero della Marina, mia madre è casalinga, ho due sorelle. La strada mi ha insegnato più dei libri, quando posso continuo a frequentare Piazza Giovane Italia, il quartiere delle Vittorie. Dalla Lazio mi mandarono via perché la pensavo a modo mio».

Nasce proprio ad Avellino, dapprima senza dare nell’occhio e poi con un’intervista clamorosa a “Lotta Continua”, il personaggio-Montesi. Ogni sabato all’hotel Jolly, quando la squadra gioca in casa, chiede di essere esentato dai soliti discorsi calcistici e dai giochi di carte per ammazzare il tempo: preferisce ricevere i propri compagni dell’ultra sinistra, discutere di problemi sociali, essere solidale con quanti si ritengono emarginati e vagheggiano un loro bisogno di giustizia con discorsi da cospiratori. A chi incauto gli chiede l’autografo, Maurizio Montesi oppone sdegnosi rifiuti e risponde: «Non perdere tempo, pensa alle scuole e agli ospedali. Non vedete come siete ridotti qui in Irpinia?».

Raccontano che aiuti disoccupati e ragazzi usciti di galera, che rifiuti le cene ufficiali, che preferisca le osterie fuori mano, che non usi mai la macchina, che eviti accuratamente di leggere i giornali sportivi. L’allenatore di allora, Paolo Carosi, cerca di capirlo, di dominarlo. Ai cronisti dice che il ragazzo non è affatto un problema, che si è ambientato benissimo, che in campo rende come pochi, che negli allenamenti è d’esempio agli altri. In effetti l’Avellino anche grazie al corridore Montesi raggiunge la sospirata promozione in serie A e ai festeggiamenti che si scatenano inevitabili, il «contestatore» si dichiara fieramente estraneo.

Così tra rimorsi e contraddizioni, Maurizio Montesi giura ai pochi amici di sentirsi sempre più solo e più incompreso tra gli eroi della domenica, tra i superpagati della pedata E nel marzo 1979 sollecitato anche da certi amici insuperabili che lo definiscono il «rivoluzionario in fuorigioco», decide di dire tutta la sua verità a “Lotta Continua”.

E’ un’intervista che mette immediatamente Montesi contro i suoi tifosi, il suo presidente, i suoi compagni di squadra. Senza usare eufemismi li definisce «completamente stronzi perché invece di pensare alle riforme importanti, alle case, agli ospedali, a fronteggiare la disoccupazione, vanno alla partita a fare i tifosi più o meno incompetenti o faziosi…».

Per diversi giorni Montesi deve rifugiarsi a Roma, nell’abitazione della madre. Si temono incidenti, si è convinti che la gente non possa perdonarlo. Poi invece il ribelle torna e finisce in maglia verde la sua inquieta stagione. Parte però immediatamente l’ordine di rimandarlo alla Lazio, a qualsiasi costo. E nella Lazio — anche perché la sua volontà in campo e il suo spirito di sacrificio piacciono al tecnico del momento, Lovati, — il ragazzo di borgata trova finalmente posto e contemporaneamente sembrano quasi affievolirsi le sue insoddisfazioni. Giurano che si è integrato, che rispetta gli altri ed è rispettato. E’ diventato amico di Giordano; finalmente frequenta un calciatore anche fuori dai campi, nelle ore libere.

Ma si arriva all’opera da tre soldi del 6 gennaio 1980, la famigerata Milan-Lazio, l’epicentro dello scandalo delle scommesse. E Maurizio Montesi, in quella domenica, si rifiuta di scendere in campo a cinque minuti dall’inizio della partita, dopo che all’arbitro è stata data la lista col suo nome incluso. Lamenta un acciacco che puzza subito di fasullo. Rientrato a Roma si confida con qualche amico dell’ultra sinistra, ma assicura che mai ufficialmente sottoscriverà le sue accuse. Insinuano che si comporti così perché è troppo amico di Giordano e non vuole rovinarlo.

Rapidamente però diventa il superteste del «calcio nero», il terribile accusatore di Wilson, l’uomo del giorno in una vicenda che sembra poter distruggere tra rivelazioni vere o inventate, in un crescendo di psicosi, il gioco più bello del mondo. E come se non bastasse, dopo aver spaccato la Roma laziale in innocentisti e colpevolisti, il 24 febbraio 1980 esce di scena. E’ un gravissimo incidente, dopo solo diciotto minuti di gioco. Le radiografìe effettuate subito dopo il ricovero evidenziano la rottura scomposta di tibia e perone con molti frammenti ossei. Prendendo visione delle lastre afferma: «Mi sono messo in fuorigioco. E’ il colmo per un rivoluzionario…. Macché rivoluzionario! Erano gli altri a crederlo. Io ho sempre agito secondo coscienza. il calcio abitua a pensare che nella vita sia indispensabile soltanto il risultato, da raggiungere a qualsiasi mezzo. E io non la vedo così, a volte mi sono ribellato… ».

Si riprende, a fatica Montesi torna in campo. Con la Lazio spedita in Serie B dai tribunali sportivi, rimane inattivo nella stagione 1980/81 e poi, nelle due successive, 1981/82 e 1982/83, totalizza complessivamente solo 11 presenze. Un secondo infortunio, sempre alla stessa gamba, all’Olimpico contro la Sambenedettese, porrà fine prematuramente alla sua carriera.

Abbandonato da tutti quelli che conosceva nel mondo del calcio, coinvolto in alcuni mai chiariti episodi di cronaca nera (secondo quanto riportato dai giornali dell’epoca), di lui da molti anni si sono perse completamente le tracce.


Link: https://storiedicalcio.altervista.org/b ... ntesi.html



IL CALCIATORE RIMOSSO.

Quello del calcio è un mondo chiuso e vendicativo, che se può te la fa pagare. Alcuni pagano più di altri, non solo con la damnatio memoriae, ma anche a causa delle pieghe che poi prende la vita. Maurizio Montesi è un centrocampista di quantità, minuto, ma con una resistenza fisica e atletica fuori dal comune. Cresce nelle giovanili della Lazio e nella stagione 1975/76 è campione d’Italia primavera, insieme ad Agostinelli, Di Chiara, Giordano, Manfredonia. Intanto, assoluta pecora nera, milita nell’estrema sinistra romana. Va ad Avellino, dove contribuisce da titolare alla promozione in A del 1978 e viene confermato per il campionato maggiore nella stagione successiva. Durante il campionato però esce una sua intervista a Lotta Continua, la prima di altre interviste ai giornali, in tutto saranno tre, che ne segneranno la carriera calcistica e la vita. In questa da una parte definisce la dirigenza collusa con la malavita e la accusa di gestire la società per ragioni clientelari, dall’altra chiama i tifosi “stronzi” perché soggiacciono a questo ed in più mentre sono pronti a mobilitarsi per la squadra non si curano per esempio dell’ospedale cittadino con pochi posti letto e popolato da scarafaggi. Termina in qualche modo la stagione (ci sarà anche chi in curva proverà a portare uno striscione rosso con scritto “hasta Montesi siempre”) ma il rinnovo è fuori discussione. Lo riaccoglie la Lazio, in cui trova vecchi reduci dagli anni d’oro come Garlaschelli e il capitano e camerata Pino Wilson e suoi ex compagni di giovanili come l’altro camerata Manfredonia, Mauro Tassotti e Bruno Giordano. Sarà una stagione cruciale quella 1979/80, per Montesi, per la Lazio e per il calcio italiano. Intanto è fra i titolari, maglia numero otto nel derby del 28 ottobre 1979, quello della morte di Vincenzo Paparelli. Non ne vuole sapere di giocare la partita, i compagni alla fine lo convincono che il suo gesto isolato avrebbe poco valore e lo costringono a scendere in campo. Ma pochi giorni dopo ecco la seconda intervista pesante di Maurizio Montesi, questa volta a Panorama. Stavolta in un clima nervoso e in un momento in cui forse per la prima volta in Italia si puntano i riflettori (alla maniera della stampa italiana, of course) sul mondo delle curve, è il primo a rivelare i rapporti tra società e ultras, i pacchetti di biglietti gratuiti, i soldi per le trasferte, i favori. Alcune società e alcuni gruppi ultras, sappiamo ormai, ma al tempo la distinzione non viene fatta. In più torna a colpire i presidenti, colpevoli per lui di avere snaturato lo sport popolare per eccellenza, corrompendolo con lo show business, e sfruttandolo come macchina crea consenso. L’aria intorno a Montesi comincia a farsi pesante e arriviamo alla notte tra il cinque e il sei gennaio ottanta, a raccontarla le sue parole:

La sera del 5-1-1980, all’hotel Jolly di Milano, ci eravamo già ritirati in camera. Il mio compagno Avagliano dormiva o comunque sonnecchiava, e io guardavo un film alla televisione, quando si affacciò alla porta della camera Wilson e mi fece cenno di uscire fuori. Si svolse un breve colloquio in corridoio; Wilson innanzitutto fece un discorso generico sulla difficoltà della partita dell’indomani, sull’arbitraggio che si prevedeva favorevole al Milan e poi propose, poiché la nostra sconfitta era probabile, che la si favorisse e parlò di un compenso in denaro che per me doveva essere intorno ai 6-7.000.000 di lire. lo rimasi sconvolto. Era la prima volta che mi veniva fatta una proposta del genere. Dissi che non ci stavo e me ne tornai in camera; Wilson da parte sua disse che non se ne faceva niente. La mattina dopo, da cenni, sguardi e mezze parole di Wilson ebbi la sensazione che la decisione di falsare l’incontro non era stata affatto revocata. E decisi allora di non giocare.

Il suo non starci non è piaciuto agli altri, capitano in testa, forse si pensa di fargliela pagare. Fatto sta che si arriva a Cagliari Lazio del 24 febbraio e un intervento di Bellini gli procura la frattura di tibia e perone. Nei giorni e nelle settimane successive in ospedale non si vedono compagni di squadra o dirigenti. Il 4 marzo Montesi riceve la visita di un giovane giornalista di un giovane giornale, Oliviero Beha della Repubblica, e a lui concede la terza intervista chiave della sua vita. Scoperchierà quello che mai si era visto in Italia e che passa alla storia come Calcioscommesse. Giocatori verranno arrestati in campo al termine delle partite, si arriverà a radiazioni, tra queste quella di Albertosi, retrocessioni, la Lazio ed il Mian, penalizzazioni, squalifiche. Nella squadra di Montesi Cacciatori, Wilson, Zucchini, Manfredonia e Giordano. Lui stesso sconterà quattro mesi di squalifica per omessa denuncia. Ripresosi dall’infortunio Montesi prova a rientrare e per descrivere questo tragitto di fine carriera prendiamo in prestito le parole di una pagina tra quelle che si occupano di Lazio:

Maurizio riceve continue minacce, va in giro scortato dai “compagni” del quartiere e da qualche amico che lo protegge quando gira per la città, ma quando scende in campo per gli allenamenti a Tor di Quinto è solo e dalle tribune gli piove addosso di tutto, con i tifosi che lo insultano attaccati alle reti urlandogli “infame, spia comunista”. Nella stagione 1980-1981, Montesi non mette mai piede in campo. Nelle due successive, colleziona solo 11 spezzoni di partita, poi si infortuna sempre alla gamba destra e quell’incidente mette la parola fine al suo matrimonio con la Lazio e alla sua carriera, perché il suo nome è finito sulla lista nera e nessuno in Italia gli fa più un contratto da calciatore.

Maurizio Montesi sparisce dal mondo del calcio, seppure ancora per un po’ figura nell’organico della S.S. Lazio come osservatore. Ricompare in realtà nel 1984 a Londra ma per tutt’altri motivi, lo arrestano per detenzione di stupefacenti. E poi dieci anni dopo a seguito di una vicenda del 1992, quando a largo di Fiumicino affonda una barca con a bordo tre tonnellate e mezza di hashish viene condannato per traffico internazionale di stupefacenti a quattro anni. Scontati i quali sparisce per davvero e la chiusa la affidiamo ancora a un pagina biancoceleste: “Scontata la pena, Maurizio Montesi esce dal carcere e di lui si perde ogni traccia. L’unica cosa certa è che ha lasciato l’Italia: secondo molti per trasferirsi in Francia, mentre altri sostengono che si sia trasferito in Asia e che ora viva in India. L’altra cosa altrettanto certa è che, nel mondo Lazio, nessuno o quasi in questi anni ha mai sofferto per l’uscita di scena del “compagno Montesi”.


Link: https://www.minutosettantotto.it/il-calciatore-rimosso/

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spiritual
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Re: Compagni calciatori

Messaggio da spiritual »

E invece il Sessantotto ha contribuito al progresso sociale e civile dell’ Italia. Penso al femminismo, all’ecologia, ai movimenti per i diritti civili: tutto ciò nacque allora. Il fallimento, se di fallimento è corretto parlare, è che ci illudemmo che si potesse cambiare il mondo. Il mondo non è cambiato, però il Sessantotto lo ha migliorato».

Questo dice Sollier nell'intervista. Qualcuno che nel passato qui sul forum era stato molto critico con il 68 dovrebbe riflettere.

ma Cristiano? te lo sei dimenticato?
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Amarantite
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Re: Compagni calciatori

Messaggio da Amarantite »

se non ricordo male anche Zampagna è un compagno
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piazza
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Re: Compagni calciatori

Messaggio da piazza »

Amarantite ha scritto: gio 28 ott 2021, 21:39 se non ricordo male anche Zampagna è un compagno
RICCARDO ZAMPAGNA

Il 10 aprile 2011 pubblica un libro autobiografico chiamato Il calcio alla rovescia, devolvendo l'intero incasso all'ospedale di Terni per l'acquisto di un mammografo. Dal settembre 2012 al gennaio 2016 ha gestito una tabaccheria situata nel centro di Terni. Nel 2016 viene raccontato nel libro del giornalista Matteo Cruccu Ex - Storie di uomini dopo il calcio.

Link: https://it.wikipedia.org/wiki/Riccardo_Zampagna


HASTA SIEMPRE ZAMPAGNA: ELOGIO DI UN ATTACCANTE OSTINATO

Riccardo Zampagna è stato un calciatore solo perché bisogna trovare una categoria a un giocatore del genere, ma se vi piacciono le etichette allora potete tranquillamente definirlo come ribelle. Sì perché Zampagna è stato tutto e il contrario di tutto: ha iniziato come tappezziere e poi la giusta videocassetta è finita nelle giuste mani del giusto direttore sportivo, poi ha fatto scelte apparentemente poco consone per un calciatore, ha messo prima i suoi valori di quelli del dio denaro, ha detto basta quando gli sembrava di non poter più dare il suo giusto contributo, ha giocato in Serie A mostrando un fisico anticonformista e si è divertito a segnare gol assurdi su tutti i campi d’Italia.

Zampagna è stato un anti-calciatore, dicono in molti, in realtà è stato un idolo, un idolo di tutti. E anche per noi, a cui il calcio piace genuino e sano, lontano dai sensazionalismi delle pay-tv, un uomo come Zampagna ha significato molto più di un semplice numero nove.

Zampagna è anacronismo: un giocatore del genere poteva esistere quando il calcio passava dal bianco e nero ai colori, non negli anni Duemila. Nato a Terni in mezzo alle acciaierie, Zampagna è figlio di lavoratori e cresce nella “working class” ternana, assumendone i tratti peculiari e le caratteristiche. Comincia a giocare in squadre del sud dell’Umbria quando lo chiama il Pontevecchio e lui deve smezzare i turni in tappezzeria con il viaggio in macchina fino alla periferia di Perugia, all’epoca lontana quasi quanto l’America. Poi arriva il grande salto alla Triestina e da lì il pellegrinaggio in tutta Italia con i picchi di Cosenza e Siena in Serie B e il ritorno a Terni, alla sua Ternana, nel 2003.

Niente è più romantico di sentir parlare Zampagna della sua breve esperienza rossoverde, in cui segnava a raffica gol non banali e andava ad esultare sotto gli occhi del cugino in Curva. Sarebbe rimasto alle Fere anche in interregionale, ma il Messina lo chiama per la Serie A e lui, straordinariamente a malincuore accetta. Inizia così a farsi conoscere anche nella massima serie prima di tornare grande con l’Atalanta e chiudere tra Vicenza, Sassuolo e Carrarese. Ma Zampagna è di più di una semplice carriera, più dell’elencazione dei suoi gol balisticamente assurdi: è un simbolo.

Sempre in direzione ostinata e contraria, Zampagna preferisce la Curva e il calore dei tifosi ai rotocalchi o alle trasmissioni televisive. Gli fanno domande standard e lui risponde alla sua maniera, schietto e con una lucidità di pensiero che mal si addice a quel corpaccione da operaio del gol. Gli chiedono un’opinione politica e lui risponde spiazzando un po’ tutti: il suo idolo è Ernesto Che Guevara, e mostra le effigie del medico argentino tatuate sulla gamba. Odia la disciplina, sembra uscito da La Classe Operaia Va in Paradiso di Elio Petri, non è per niente pop come i suoi colleghi, è non convenzionale ma non lo è in maniera forzata come fanno quelli che dicono di schifare le riviste patinate e poi pagano per finirci sopra.

«Non sputo nel piatto in cui mangio – afferma però il buon Riccardo – il calcio professionistico mi ha dato molto economicamente ma non mi ha cambiato, continuo a essere un atipico». Atipica è anche la scelta di allenare l’Associazione Primidellastrada quando chiude come calciatore, una squadra che già leggendo il nome per intero specifica le sue intenzioni: associazione dilettantistica sportiva comunista.

Tre però sono le immagini indelebili della vita calcistica di Zampagna. Una è la fine, l’addio al calcio nel suo Libero Liberati in un Ternana – Atalanta amichevole con gli spalti stracolmi di gente ad abbracciare e salutare idealmente il simbolo di una città in perenne lotta. Un altro è in un autogrill quando ormai gioca nel Sassuolo: i tifosi dell’Atalanta bloccano il pullman neroverde solo per celebrare colui che avevano amato, ricambiati.

Il terzo è il più importante ed è emblema di cosa è stato Zampagna. Paolo Di Canio assurge ahinoi agli onori delle cronache per il saluto romano nel derby e poi si ingarbuglia in voli pindarici per spiegare quel gesto, il mondo politico è in fermento ma non come quello calcistico e come i tifosi del Livorno, la cui fede non è nemmeno da spiegare da quanto è nota. Il caso vuole che si giochi proprio Livorno contro Messina e nel Messina giochi uno come Zampagna, al quale è sempre importato di dire la propria a prescindere dalle considerazioni altrui. E così succede che, in un momento in cui politica e calcio devono rimanere separati come suggeriscono i soloni dall’alto delle loro cariche, Zampagna si diriga verso la curva amaranto, si giri verso i tifosi del Livorno e porti in alto il pugno. Con tutta la naturalezza del caso.


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RICCARDO ZAMPAGNA: ACCIAIO, ROVESCIATE E PUGNI CHIUSI
ALESSANDRO BEZZI

Ettore Zampagna è un operaio. Uno dei tanti a Terni, dove la vita è scandita dalle sirene delle Acciaierie; è così da prima della guerra e non c’è ragione di pensare che le cose possano cambiare. Si lavora fino a riempirsi i polmoni d’amianto, e quando si è troppo vecchi arriva qualcuno a dare il cambio; magari un figlio, che tanto gli orizzonti uno non se li sceglie. Negli anni ’80, per la famiglia Zampagna, l’orizzonte è la ciminiera di una fabbrica.

Riccardo, il figlio di Ettore, sa già cosa lo aspetta: nella Manchester d’Italia si fanno i turni in catena di montaggio, si esce con la ragazza il sabato e magari si va in Curva Est la domenica. Terni sembra un inno alla working class, che farà pure impazzire i fan del britpop, ma non chi ci vive tutti i giorni.

“Figliolo, non andare mai a lavorare alle Acciaierie;
lì nessuno ti darà mai la pacca sulla spalla e ti dirà bravo se fai un buon pezzo”.

«Ecco, io ho sempre giocato per ricevere quella pacca e sentirmi dire: Bravo Riccardo. I soldi vengono molto dopo tutto questo».

Riccardo gioca a pallone, e come tutti i ragazzi sogna di sfondare. Nonostante i sacrifici della famiglia, quando compie 20 anni si è ormai capito che il calcio è divertente, ma non dà da campare: «Guadagnavo 800 mila lire al mese come lavorante nella tappezzeria di Giampiero Riciutelli e altrettanti me ne dava il presidente dell’Amerina».

Durante la settimana monta e smonta le tende; la domenica gioca in attacco. Ha ottime doti atletiche, ma non è un fenomeno, anche perché la scuola calcio non l’ha fatta: «Calciatori si nasce e io non ci sono nato. Il calciatore cresce passando attraverso i settori giovanili, con gente che gli spiega cosa fare». Probabilmente, non sarebbe servito granché: sarà istinto o innata sfiducia nell’autorità, ma Zampagna in campo fa di testa sua.

Nel 1996 lo contatta la Pontevecchio, società di Ponte San Giovanni che milita in Interregionale: il padre gli compra una Fiat Tipo con i soldi della pensione:

«La trasformammo a metano per consumare meno. Crescevo di categoria ma ci rimettevo economicamente, 100 mila lire al mese in meno come calciatore e gli spostamenti a mie spese».

Zampagna si accorda con il titolare della tappezzeria, che ne asseconda la passione: «Lavoravo dalle 6 alle 13, poi mangiavo un panino guidando verso Perugia». Se è stanco, in campo non si vede: in 22 presenze segna 13 gol. Tanti, tantissimi in quei campi fangosi dove l’erba è un’utopia e i difensori non fanno tanti complimenti.

Tutto lascia credere che Riccardo Zampagna resterà un onesto bomber di periferia, di quelli che non vivono grazie al pallone; finché un osservatore non invia a Trieste una videocassetta con le sue giocate. La Triestina è una nobile decaduta, appena tornata in Serie C2 dopo il fallimento; ha bisogno di piedi buoni, più che di nomi altisonanti. Il ds Walter Sabatini si guarda il VHS, e il tappezziere 22enne si ritrova di colpo professionista.

Trieste, poi Arezzo, Catania e infine Perugia, dove arriva con una dubbia operazione della famiglia Gaucci che coinvolge anche Baiocco, Tedesco ed Olive. Neanche il tempo di esordire in A che Zampagna torna a sgomitare nel campionato cadetto: Cosenza, poi Siena e il boom nel 2002 a Messina (17 gol). Nell’estate 2003 la Ternana diventa comproprietaria del suo cartellino, e Riccardo Zampagna torna a casa. Il debutto allo stadio Liberati è proprio contro quel Messina che a fine stagione deciderà con i rossoverdi il suo futuro.

«Quando mi hanno detto “Sarai un giocatore della Ternana”, mi sono venuti i brividi. Sono andato sotto la curva per togliermi la maglia. Guardo la curva per vedere chi conoscevo, e conoscevo un po’ tutti. Ad un certo punto, vedo mio cugino che piange».

L’estate successiva il Messina riscatta Zampagna, costretto ad abbandonare la sua Terni per una Serie A che mai gli era interessata così poco. Ma se proprio bisogna farlo, tanto vale presentarsi alla grande, con un pallonetto che annienta la Roma. Un “cucchiaio” fantastico, proprio sotto gli occhi di un certo Francesco Totti.

Il 16 gennaio 2005, in occasione di Livorno-Messina, Zampagna saluta a pugno chiuso gli ultrà amaranto: «Si è trattato di una cosa privata. Prima della partita sono venuti a parlare con me dei ragazzi di Livorno e di Terni, perché le due tifoserie sono gemellate. È stato molto emozionante. Eravamo avversari, eppure ci siamo messi a parlare in mezzo al campo».

L’episodio, nella miseria del racconto pallonaro italiano, ne fa il personaggio antitetico a Di Canio; pagare la multa non basta a stemperare le polemiche, ma basta a Zampagna per conquistarsi la simpatia delle curve (poche) e degli intellettuali (troppi) di “sinistra”.

Dopo due anni e sedici gol, Zampagna passa all’Atalanta: visto lo storico gemellaggio, una seconda casa per chi tifa Ternana. Zampagna contribuisce a far tornare in Serie A i bergamaschi, per poi continuare a deliziarli con alcuni dei suoi gol più belli.

Un pallonetto al volo contro la Lazio, una rovesciata contro la Roma e un’altra contro la Fiorentina, che gli vale il premio AIC Oscar del calcio per il miglior gol del 2007. Dopo una parentesi a Vicenza, nel 2010 passa al Sassuolo; durante una trasferta, duecento tifosi dell’Atalanta bloccano il pullman della squadra emiliana e improvvisano una festa in mezzo di strada per il loro ex bomber.

Nel 2011 passa alla Carrarese di Buffon e Lucarelli, ma dopo soli 3 mesi decide di abbandonare il calcio dei professionisti: si tessera per l’ASD Comunista “Primidellastrada” di Terni. Una presa di posizione netta, come scendere in piazza per protestare contro gli esuberi alle Acciaierie Ternane, ora di proprietà della ThyssenKrupp:

«Sfilerò in corteo. Le acciaierie mi hanno dato da mangiare».

Zampagna nel 2013 diventa allenatore del Macchie, squadra di un piccolo paese umbro: «Quasi tutti svolgono lavori umili e cacciano il cinghiale. La squadra di calcio è il vero orgoglio del paese e anche agli allenamenti c’è sempre gente che ci segue. Una volta a settimana coi dirigenti e i tifosi più fedeli ci si ritrova a mangiare il cinghiale a bordo campo. Qui si respira quell’umanità che è l’essenza del calcio vero e genuino».

Gli Zampagna sono fatti così: la semplicità prima di tutto. E se poi la palla si alza un po’, si può sempre tentare una rovesciata.


Link: https://zonacesarini.net/2015/02/03/ric ... ni-chiusi/







spiritual ha scritto: gio 28 ott 2021, 20:28
ma Cristiano? te lo sei dimenticato?
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CRISTIANO LUCARELLI è fòri categoria e poi cerchiamo di parlà di quelli che un si sanno o si conoscono di meno.
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MaxLabro
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Re: Compagni calciatori

Messaggio da MaxLabro »

Credo anche Boninsegna e Vendrame erano parecchio a sinistra.
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piazza
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Re: Compagni calciatori

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MaxLabro ha scritto: ven 29 ott 2021, 17:56 Credo anche Boninsegna e Vendrame erano parecchio a sinistra.
ROBERTO BONINSEGNA
https://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_Boninsegna


Qualcuno era calciatore e votava comunista. Boninsegna: “Mio padre morto per la fabbrica. Senza il pallone, quello era il mio destino”
Oggi è il centenario del Partito Comunista Italiano, che nel 1976 ottenne il miglior risultato della storia alle urne. Lo stesso anno il Guerin Sportivo chiese ai calciatori chi avrebbero scelto: il Pci era in minoranza. Tra questi c'erano Roberto Boninsegna, Comunardo Niccolai e Claudio Onofri. Oggi raccontano le ragioni di quella scelta.

Bruno Boninsegna ha lavorato per 36 anni alla Cartiera Burgo di Mantova. Classe 1917, se ne è andato a 61 anni per un brutto male al fegato, in tempo per seguire quasi tutta la splendida carriera del figlio Roberto, uno dei centravanti italiani più forti di tutti i tempi. Bruno era anche membro della commissione interna della fabbrica. Votava comunista così come Bobo, stando alla dichiarazione che fece nel 1976 al Guerin Sportivo, quando si chiese ai calciatori quale partito avrebbero scelto alle urne. “Il mio era un voto di tradizione familiare – dice oggi l’ex bomber della Nazionale a ilfattoquotidiano.it – mio padre ha lavorato una vita intera ed è morto per colpa della fabbrica. Gli operai venivano trattati come bestie. Se non fossi diventato calciatore, probabilmente quello era il mio destino”.

Oggi è il centenario del Partito Comunista Italiano, fondato a Livorno in seguito alla separazione della parte sinistra del Partito Socialista Italiano. Il 3 febbraio 1991 la dissoluzione ufficiale del partito che tra quelli comunisti è stato il più grande in Europa occidentale. Ormai il muro di Berlino era caduto e anche l’Urss si stava disgregando. “Ho votato Pci – continua Bonimba – ma mi è capitato anche di non andare a votare. Ho cercato tuttavia di tenermi il più possibile lontano dalla politica. A Mantova, la mia città, mi hanno cercato sia a destra che a sinistra, ma io mi sento un uomo di sport”.

Comunardo Niccolai, scudetto con il Cagliari e presenze in Nazionale, è calcisticamente un figlio d’arte. Il padre Lorenzo fu il portiere del Livorno negli anni Trenta. Il nome Comunardo è in onore della Comune di Parigi. Stando a quel numero del Guerin anche lui avrebbe votato Pci. “Non mi ricordo assolutamente di quelle pagine – dice oggi l’ex difensore – Non credo di aver votato così. La politica mi ha sempre interessato il giusto. Mio papà era di quell’area politica, ma mi ha sempre lasciato libero senza influenzare mai le mie scelte”.

Tra coloro che avevano dichiarato il voto per il Pci anche Claudio Onofri, bandiera del Genoa ma che nella stagione 1975-76 aveva giocato nell’Avellino. La maggioranza dei calciatori intervistati era per la Democrazia Cristiana, a seguire il Psi. Il Pci alle tornate elettorali di domenica 20 e lunedì 21 giugno avrebbe preso il 34,37 percento, a pochi punti percentuali dalla Dc. Il miglior risultato della storia per il partito di Enrico Berlinguer. Onofri, lei ha poi mantenuto l’intenzione di voto? “Sicuramente. Io nasco e morirò così: anche se oggi tutto è cambiato”. Papà e nonno Onofri erano antifascisti. Nato a Roma, Claudio si trasferisce a sei anni con la famiglia a Torino, quartiere Vanchiglia. Entra nelle giovanili della squadra del rione. La sua fidanzatina diventa Mariangela Sollier, sorella di Paolo anche lui tesserato per lo stesso club. “Paolo Sollier ha quattro anni più di me – racconta Onofri – e ci allenavamo nello stesso campo. Siamo a metà degli anni Sessanta, mi avvicino a quel pensiero grazie a lui e ai movimenti che si creano attorno alla scuola superiore che frequento. Sembra quasi una contraddizione che l’élite calcistica stia col popolo e con i lavoratori ma quello era il periodo giusto per essere di sinistra. Io ho sempre votato Pci, ma ho creduto più nell’idea che non nel partito”.

Link: https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/0 ... o/6070948/




Roberto Boninsegna, il centravanti che votava comunista
Sono i primi anni ’60 e al torneo di Viareggio due ragazzi si rincorrono e si strattonano. Uno è il giovane attaccante interista Roberto Boninsegna, l’altro è il sampdoriano Francesco Morini. Le loro sfide caratterizzeranno il decennio successivo, fino a sfumare una volta diventati compagni di squadra. Boninsegna avrebbe voluto rimanere all’Inter, ma l’Inter lo mette alla porta. Questo addolora ancora Boninsegna, non sa darsene una ragione. Forse perché votava comunista, come suo padre operaio in fabbrica. Si è scritto molto dei pochi calciatori legati alla sinistra extraparlamentare italiana e tedesca degli anni ’70, nessuno studio è ancora apparso su coloro che in Italia erano comunisti ai tempi di Togliatti e di Longo e per questo motivo venivano penalizzati, anche se erano dei campioni inarrivabili come Roberto Boninsegna, il più grande centravanti italiano del secondo Novecento.

Il 1963-64 è in seconda divisione a Prato e l’anno seguente a Potenza, sospingendo con nove reti la squadra al quinto posto. Quindi un anno a Varese, il primo nella massima serie e tre al Cagliari, prima di tornare all’Inter e quindi passare nel triennio 1976 – 1979 alla Juventus.
Boninsegna sigla la prima rete della storica semifinale messicana del 1970 tra Italia e Germania, finita 4 a 3 per una rete di Rivera propiziata da un’estenuante e gloriosa sgroppata sulla fascia laterale proprio di Boninsegna, che in finale pareggia il vantaggio brasiliano, prima che Pelè e compagni dilaghino nel secondo tempo. Eppure quel mondiale non lo doveva giocare perché l’allenatore Ferruccio Valcareggi non lo voleva in squadra, dopo averlo fatto debuttare a Berna contro la Svizzera nel novembre 1967 e averlo presto dimenticato, solo l’infortunio di Anastasi lo catapulta sulla ribalta planetaria. Pure quattro anni dopo parte in tribuna, preferendogli Valcareggi Anastasi e Chinaglia. Poi, quando la squadra sarà con l’acqua alla gola, l’Italia si affiderà tardivamente alla sua potenza e alle sue giocate, lui che ancora una volta aveva segnato una caterva di reti anche quel campionato, ben ventitre, di cui quattro a ottobre contro il Foggia il 18 novembre 1963, esattamente sei anni dopo il suo debutto in nazionale, cerca di rappezzare una partita, quella con la Polonia, che ha anche visto il governo argentino di Juan Domingo Peron, tornato alla guida del paese, promettere ai polacchi un premio in cambio di un aiuto nel passaggio del turno, che infatti avviene ai danni dell’Italia. Di quel mondiale del 1974 Boninsegna ricorda l’aereo arrivato nella notte da Roma per permettere al litigioso Chinaglia di tornare in squadra. L’aereo portava Tommaso Maestrelli, allenatore della Lazio quell’anno per la prima volta campione d’Italia e il solo capace di contenere l’iracondo centravanti e uno dei figli, laziale nonostante le origini partenopee della famiglia, del presidente della Repubblica Giovanni Leone, espressione della destra democristiana. Sulla panchina della nazionale arriverà Fulvio Bernardini, troppo tardi, constata amaramente Boninsegna. Innumerevoli i suoi gol con l’Inter e poi con la Juventus, alcuni con acrobazie tanto ardite da valergli il soprannome, regalatogli dall’insuperato giornalista e scrittore Gianni Brera, di Bonimba.
L’allenatore del grande Cagliari Manlio Scopigno, che proprio l’anno prima dello storico e al momento unico scudetto sardo si vede costretto a cederlo per portare sull’isola Gori e Domenghini, resta quello a cui più è legato e che più gli ha insegnato. A Cagliari Boninsegna lascia un grande amico e un affiatato compagno di gioco: Gigi Riva, si ritroveranno fianco a fianco solo in una manciata di partire in nazionale, scrivendo pagine significative del calcio azzurro, come appunto quelle del mondiali del 1970. Una simile intesa Boninsegna la ritroverà solo anni dopo con il giovane Roberto Bettega. Nei primi anni ’80 chiude, non al Mantova, sua città natale, come avrebbe voluto, una intensa e gloriosa carriera di calciatore e inizia quella di allenatore, guidando a lungo le nazionali giovanili della terza divisione italiana. Poi decide di lasciare, nonostante sia ancora innamorato di questo gioco, perché totalmente estraneo, distante e critico verso un calcio moderno in cui lo strapotere dei procuratori, i troppi disonesti, i troppi interessi soffocano uno sport che, diventando a tutti i costi un’industria a caccia di profitti, tradisce quella passione che Roberto Boninsegna trasmette, con uno sguardo fulmineo come i suoi scatti, a chi abbia la fortuna di incontrarlo.

Link: https://www.sinistra.ch/?p=7209



LA STORIA. Papà Bruno lavorò per 36 anni alla cartiera Burgo di Mantova, i cui lavoratori, in cassa integrazione, da febbraio presidiano gli impianti. E così Bonimba ha voluto festeggiare con loro. C'eravamo anche noi
Un posto; alla fine, è sempre quello ciò per cui si lotta. Che sia un posto da titolare in campo, qualcosa da ottenere, o un posto di lavoro, qualcosa da salvare. "Il giorno prima del provino con l'Inter, a cena papà mi vide nervoso e mi domandò quale problema avessi. Il giorno dopo sarei andato a Milano, e chissà come sarebbe andata. 'Non preoccuparti. Un post in cartera al ghè', mi disse". Roberto Boninsegna, in quel provino all'Inter, fece faville, per la felicità di papà Bruno, che vedeva realizzarsi i sogni del figlio, fuori dalla fabbrica. La cartera, in dialetto mantovano, è la cartiera Burgo, il luogo in cui martedì sera Bonimba ha festeggiato i 70 anni (li compirà, effettivamente, il 13 novembre) assieme al presidio degli operai che, da febbraio, quando la cartiera ha spento gli impianti, sono in cassa integrazione. E sempre lì si torna, indietro di cinquant'anni, come nell'attualità e nel futuro: la lotta per il posto.

Nel nome del padre. "Vado per gli operai, mi interessa che si parli della fabbrica e dei suoi problemi": così, in un'intervista a l'Unità, Boninsegna raccontò il motivo della sua presenza. Ovvero tenere accesi i riflettori sulla Burgo, che per Bonimba non è una fabbrica qualunque. Era quella delle battaglie di papà Bruno, classe 1917 e membro della Commissione interna, 36 anni in cartiera: "Si metteva un fazzoletto davanti alla bocca mentre lavorava. Quando tornava a casa, il fazzoletto non era più bianco: era verde. Mio padre è morto a 61 anni, ucciso da gas e polveri". Nel nome del padre, insomma, e di un'ottima causa.

Il figlio di Mantova. Era la Mantova degli anni '60, quella in cui la Burgo, ristrutturata secondo il progetto di Pier Luigi Nervi, divenne un esempio di architettura industriale, una struttura che è un'opera d'arte. Questo è ciò che si vede al di fuori, sull'orizzonte del Lago di Mezzo. Dentro, una fabbrica viva: lotte sindacali, vertenze, accordi; fulcro produttivo di una città in cui c'è anche il calcio. Al Mantva, il Piccolo Brasile di Fabbri: Boninsegna, guarda a volte il caso, nel club di casa non giocherà mai. Ma di Mantova lui è uno dei figli prediletti, storia di pane duro e case popolari, e la singolare festa alla mensa della cartiera lo ha confermato: sotto la regia dei mantovani Roberto Borroni, per anni sottosegretario all'Agricoltura dei governi Prodi e D'Alema, e del giornalista Adalberto Scemma, la Burgo e le istanze dei suoi lavoratori sono tornate... in campo, con Boninsegna centravanti, a dare una testimonianza di solidarietà tutt'altro che scontata.

Invincibili e irriducibili. Una serata sul filo dei ricordi e con il filo conduttore del lavoro. C'erano i reduci di una squadra che, a Mantova, chiamavano gli "Invincibili". Erano i giovanissimi del Sant'Egidio: "Papà era comunista, ma lasciava che andassi a messa, come accadeva a tanti miei compagni che finirono nel Sant'Egidio. Una squadra, la nostra, che non riusciva a perdere". Vi giocava anche Bruno Scardeoni detto "Nacka", come Skoglund, che finì al Genoa di Sarosi per poi diventare uno dei più importanti antiquari d'Europa e tornare, martedì, a Mantova per riabbracciare Bonimba e sostenere gli operai. Invincibili loro, irriducibili i lavoratori che da febbraio presidiano la fabbrica. Sono oltre 180, l'età media supera di poco i 40 anni, sarebbero pronti a riconversioni dell'azienda e riqualificazioni, perché è il posto ciò che conta, è la dignità del lavoro. Giampaolo Franzini, per le Rsu, fa gli onori di casa, la serata è partecipata: operai, cittadini, media. Fari accesi e sì, per qualche ora, è l'ottimismo a farla da padrone.

Come un gol. In una settimana, della situazione della Burgo si è parlato più che in otto mesi. Ecco perché, al momento della torta, i cori augurali erano cori da stadio: questa volta, vale come un gol, più di un gol. E chissà in quanto, oggi, credono ancora di più "nelle rovesciate di Bonimba". Sul campo, nella vita.

Link: https://sport.sky.it/calcio/2013/11/03/ ... go_mantova




EZIO VENDRAME
https://it.wikipedia.org/wiki/Ezio_Vendrame


EZIO VENDRAME, MAURO ICARDI E LE 44 MILA LIRE.
Ciao Ezio, ti pensavo.
Ti pensavo perché tutti pensano a Mauro Icardi, ed io dovevo irrimediabilmente evadere. Non so se lì dalle parti di Cjasarse qualche volta ne senti parlare di Mauro Icardi e degli altri come lui, ma qua in città non parlano d’altro. Parlano di Mauro Icardi e non di te, ci credi? Vabbè, non divaghiamo.
Ti pensavo, dicevo, e mi è venuta una gran voglia di raccontarti. Oh, se sbaglio qualcosa correggimi.

Siamo nel 1947. La Romania ci saluta a pugno chiuso, in Palestina è l’inizio di quello che non troverà più fine, Coppi apre il culo a Bartali e a Cjasarse, Casarsa della Delizia per chi non è nato tra Pordenone e Gorizia, precisamente il 21 novembre, nasce Ezio Vendrame.
Facciamo un giochino: aprite Google, digitate Ezio Vendrame, aprite la pagina Wikipedia e guardate la foto. Avete pensato quello, vero? Avete pensato “ma qua c’è un errore! Ma Casarsa della Delizia un cazzo, ‘sto qua è nato a Belfast! Questo giocava nel Manchester United!”. E invece no, bei miei romanticoni.

La prima squadra importante di una carriera poco importante è l’Udinese, che lo tessera all’età di 13 anni, ma subito dobbiamo interromperci. Di Ezio dovete sapere una cosa che nella sua carriera conterà più dei piedi buoni: Ezio è un inguaribile figlio di troia. Intendiamoci: non stiamo analizzando la vita sessuale della madre di Vendrame e tantomeno stiamo dicendo che Vendrame fosse un figlio di troia come i figli di troia di oggi. Ezio Vendrame non si è mai scopato la madre dei figli dell’amico e idolo calcistico. Ezio Vendrame quell’amico e idolo calcistico più in la con gli anni lo incontrerà sul campo e lo saluterà con un tunnel che fece la storia, annoverandolo poi nella sua autobiografia come “il più grande rimpianto della mia vita”. Era Gianni Rivera, era Ezio Vendrame ed erano altri tempi. In parole povere, Ezio Vendrame era uno di quei figli di troia che piacciono a noi.
Ezio VendrameMa continuiamo il racconto dell’Ezio calcistico avendo ormai presa coscienza del piccolo dettaglio. Uscito dall’accademy friulana il nostro ragazzino va a farsi le ossa alla SPAL. “Mister Mazza, vada a prenderselo nel culo”, e siamo in prestito alla Torres. Che vi avevo detto?
Dopo qualche annetto speso errando per l’Italia è arrivato il momento del salto di qualità: Lanerossi Vicenza, ergo la Serie A di Boninsegna, Riva e Bettega. Scusate se è poco.
Con i vicentini ci starà 3 anni, poi passa al Napoli sotto pressioni di quel Luis Vinicio che a Vicenza si era fatto conoscere. “Mister Vinicio, vai se foder”, e siamo al Padova. Deve essere andata quasi sicuramente così, perché l’esperienza napoletana finisce con 3 misere presenze. A saperlo meglio Vicenza..
Fatte le valigie e salutato il Vesuvio Ezio torna a nord, dove si trova palesemente più a suo agio, come avevamo detto a Padova. Ed è proprio Padova che consacrerà il Vendrame calciatore e il Vendrame personaggio. Con i biancoscudati infatti conterà 57 presenze in 2 anni, record personale, ma soprattutto farà innamorare me e voi del Vendrame personaggio.
La Serie C del ’75 era marcia fino al midollo, con la compravendita di partite all’ordine del giorno. E anche quel Padova-Cremonese aveva un destino concordato a tavolino: 0-0, in culo a chi spende soldi per venire allo stadio. Ezio prende palla e iniziò a correre dalla parte sbagliata del campo. Qualche suo compagno provò a fermarlo, ma nessuno ci riuscì. Arriva di fronte ad un disperato Bartolini che si getta su quei piedi che stavano dando vita a quella splendida follia, ma Ezio lo evita. Lasciamolo divertire ancora un po’. Si fermerà qualche metro più avanti, sulla linea di porta, e poi inizierà a correre di nuovo, stavolta dalla parte del campo corretta. Quel pomeriggio al Silvio Appiani di Padova un tifoso morirà d’infarto. “Ha sbagliato lui, non io”, commenterà in seguito, “non si viene a vedere giocare Ezio Vendrame se si ha problemi di cuore”. Chapeau!
L’anno successivo il Padova inizia ad ingranare sul campo, ma guai a dare un’occhiata al portafogli. Vendrame a Padova prendeva 44mila lire, una miseria. 7milioni invece non erano malaccio. E sono proprio 7 i milioni che Vendrame si trova costretto a rifiutare dalle mani di una figura poco chiara legata all’Udinese. Sette milioni in tasca se giocherai male la partita contro l’Udinese, la proposta. All’inizio fu un timido sì, ma quando entrò in campo capì che non poteva mantenere fede a quella promessa. I friulani, la sua gente, lo stava rumorosamente fischiando e non era decisamente il caso di giocare male. Palla sul calcio d’angolo, guardò i tifosi che così tanto lo odiavano e con un mezzo sorriso indicò la porta. “Guardate quella, non me, che poi vi perdete il goal”. E goal da calcio d’angolo fu.
Padova 3-2 Udinese. Vendrame ne segna due. “Affanculo i 7 milioni, viva le 44 mila lire!”

Link: https://www.minutosettantotto.it/ezio-v ... mila-lire/
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Re: Compagni calciatori

Messaggio da Cuccu »

BRUNO NERI
https://it.wikipedia.org/wiki/Bruno_Neri
https://giocopulito.it/bruno-neri-il-ca ... artigiano/
https://www.footballpills.com/calcio-it ... sul-campo/

Ecco un estratto dall'ultimo link:

Nel 1929, nella stessa estate in cui avviene la riforma della massima serie, per la prima volta a girone unico, la Fiorentina si assicura le sue prestazioni per la cifra, allora tutt’altro che modica, di 10 mila lire. Da sottolineare il nome del presidente della squadra gigliata: il marchese Luigi Ridolfi, fascista della prima ora.

Appena due anni dopo, il 13 Settembre del 1931, la squadra gigliata, appena promossa in A, inaugura il suo nuovo stadio, intitolato alla memoria dello squadrista Giovanni Berta, nell’amichevole contro l’Admira Vienna.

Lo stadio è stato fortemente voluto dal presidente Ridolfi, sotto la abile regia di Benito Mussolini in persona. L’architetto Pier Luigi Nervi, in ossequio al Duce, progetta un impianto a pianta semicircolare, con una delle due tribune fortemente schiacciata, al fine di ricreare una D, che verrà cancellata soltanto con la ristrutturazione del 1987, quando avviene il restyling della struttura, che adesso porta il nome dell’ex presidente UEFA Artemio Franchi, in vista del Mondiale ’90.

Alla presenza di numerosi gerarchi presenti sugli spalti, tra cui il podestà Della Gherardesca, i giocatori della Fiorentina si esibiscono nel saluto romano. Tutti, ma non Bruno Neri.


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Inaugurazione dello stadio di Firenze, 1931: Bruno Neri, contrariamente dai compagni, non effettua il saluto romano
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Re: Compagni calciatori

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Ancora MAURIZIO MONTESI

«Io sono nato tra i casermoni della bassa borghesia, sono figlio della spaventosa speculazione edilizia di Roma, mio padre è impiegato al Ministero della Marina, mia madre è casalinga, ho due sorelle. La strada mi ha insegnato più dei libri, quando posso continuo a frequentare Piazza Giovane Italia, il quartiere delle Vittorie». Questa è la storia di un calciatore “scomparso”, vittima della damnatio memoriae, per il suo pensiero, di un antieroe in un mondo, quello del calcio, spesso chiuso a riccio su se stesso, omertoso e anche vendicativo. Pienamente condivisibile il giudizio che emerge dall’articolo di “PensoLibero”. Di Maurizio Montesi rimangono, negli annali del calcio, poche presenze nell’Album Panini che, mai come in questo caso, da semplice svago adolescenziale, diventa memoria storica. Maurizio Montesi inizia a giocare a calcio nelle giovanili della Lazio, con le quale si laurea Campione d’Italia Primavera fino ad arrivare in prima squadra senza esordire. Giocare in quella Lazio non è facile, forse perché piena zeppa di giocatori dal carattere duro, tosto, cosa che ha permesso loro in appena tre anni di passare dalla serie B al titolo di Campione d’Italia. È la Lazio dei Wilson e Martini, dei Re Cecconi e dei Garlaschelli.

Non c’è più un leader come Giorgio Chinaglia, ci sono giovani virgulti come Giordano e Manfredonia. E Maurizio Montesi, in quell’ambiente, è una mosca bianca, la macchia di sporco sull’abito della domenica, l’eccezione alla regola, la pecora nera. Lui, il “compagno” Montesi, è quello che viene politicamente definita una “zecca” negli anni di piombo di Roma. E Maurizio, con quei capelli arruffati, i baffi e la barba incolta, il viso scuro su un fisico minuto, centrocampista di quantità più che di qualità dai polmoni d’acciaio, paradossalmente sembra più un terrorista che un pensatore di sinistra. Perché lui, Maurizio, è un uomo di estrema sinistra in una squadra con una evidente politicizzazione verso l’estrema destra.

Una squadra, a detta sua, «dove per far carriera bisognava essere di destra ed essere ciecamente obbedienti a Wilson che distribuiva premi, punizioni, onori e cariche interne a sua discrezione. Dalla Lazio mi mandarono via perché la pensavo a modo mio». E il disagio lui lo sente tutto, così da capire che quell’ambiente non è per lui, seppur vi è cresciuto. Così se ne va ad Avellino, prima in serie B e poi in serie A. Accetta il trasferimento lontano da casa purché non pretendano da lui che porti la divisa sociale, purché non gli rompano le scatole e non lo trattino da pecora nera com’è stato nella Lazio.

Non concede interviste pre partita il sabato nei ritiri, se non al giornale Lotta Continua, e utilizza il tempo libero per far propaganda con i suoi compagni di ultra sinistra. Rifiuta cene ufficiali e atteggiamenti da vip come gli autografi, meglio un atteggiamento da contestatore, come lo iniziano a chiamare, di quelli che aiutano i disoccupati o chi cerca di reinserirsi nella società dopo la galera. «Non perdere tempo, pensa alle scuole e agli ospedali. Non vedete come siete ridotti qui in Irpinia?» a chi gli chiede una foto o una firma su un taccuino. In campo, però, da tutto il fritto e contribuisce a portare l’ Avellino in A. Maurizio è un rivoluzionario che spesso si ritrova in fuorigioco nella vita, al di là della linea e degli schemi.

E, nonostante due buoni campionati con i Lupi irpini, deve fuggire dopo l’ennesima intervista a Lotta Continua dove definisce dirigenti, compagni di squadra e tifosi del club irpino: «completamente stronzi perché invece di pensare alle riforme importanti, alle case, agli ospedali, a fronteggiare la disoccupazione, vanno alla partita a fare i tifosi più o meno incompetenti o faziosi…». Non si ferma qui, li chiama collusi con la mafia, parla di scarafaggi presenti negli ospedali, insomma sciorina verità che non si possono narrare e che, nel migliore dei casi, come unica gratificazione ti fanno guadagnare qualche timido striscione sugli spalti del Partenio del tipo “Hasta Montesi, siempre!”. Apriti cielo, l’unica cosa da fare è tornare a Roma, da quella Lazio che stavolta sembra accoglierlo, nonostante la politicizzazione a destra, nonostante Wilson, nonostante Maurizio Montesi.

Perché forse Maurizio non è un’anima candida come fu più tardi definito uno come Damiano Tommasi, ma di certo è uno che ha un codice etico, difende il suo pensiero nella forma anche al di là della sostanza. È tra i pochi che non vuol giocare quel maledetto derby tra Lazio e Roma che poco prima aveva visto la morte del tifoso Vincenzo Paparelli, colpito in pieno petto da un razzo esploso dalla curva giallorossa. Vi viene costretto ma è un rospo troppo grande da tenere in gola. Così qualche giorno dopo si concede un intervista a Panorama dove denuncia i rapporti tra club e tifo estremo delle curve, i biglietti gratuiti e i viaggi pagati a fronte di minacce subite. Punta il dito contro i presidenti, rei di dirigersi verso un calcio fatto più di business che di passione. Insomma, “molti nemici, molti onori” sembra essere coniata per lui! E quindi non stupisce che il 6 gennaio 1980, la domenica che vede in campo Milan e Lazio, una delle partite più “chiacchierate” dello scandalo scommesse, lui decide di tirarsi fuori, di non scendere in campo, accusando un infortunio che ai più sembra una scusa.

Qualcuno forse vuol fargliela pagare, forse il capitano Pino Wilson, forse tutta la squadra, forse anche gli avversari. Fatto sta che il 24 febbraio un intervento del cagliaritano Bellini gli procura la frattura di tibia e perone. Casualità? Predestinazione? Intervento scientifico? Fatto sta che ora il “contestatore” è fuori gioco, fuori dalle palle. Così pensano, ma non conoscono Maurizio Montesi che stavolta concede le sue riflessioni a un giovanissimo giornalista, uno di quelli che negli anni futuri si farà apprezzare per le sue inchieste, sportive e non: Oliviero Beha.

Beha fa semplicemente quello che non fa nessuno dei suoi compagni di squadra alla Lazio: va a trovare il brutto anatroccolo, la polvere sull’abito, la “zecca” all’ospedale. E Maurizio, vuoi per riconoscenza, vuoi per solitudine, vuoi perché i rospi in gola proprio non riesce a digerirli, fa una cosa semplice:parla , parla , parla, di quello che nessuno vorrebbe ascoltare, di quello che tutti sanno ma tutti negano. Parla di partite truccate da dirigenti e calciatori, parla di scommesse, di un fiume di denaro che sporca la passione di milioni di italiani. Lo fa in modo fragoroso, un modo che non lascia adito a dubbi. Quell’intervista la replica dinanzi ai giudici dai quali è chiamato, scende nei dettagli della melma che permea, sotterranea, il mondo luccicante del calcio.

«La sera del 5-1-1980, all’hotel Jolly di Milano, ci eravamo già ritirati in camera. Il mio compagno Avagliano dormiva o comunque sonnecchiava, e io guardavo un film alla televisione, quando si affacciò alla porta della camera Wilson e mi fece cenno di uscire fuori. Si svolse un breve colloquio in corridoio; Wilson innanzitutto fece un discorso generico sulla difficoltà della partita dell’indomani, sull’arbitraggio che si prevedeva favorevole al Milan e poi propose, poiché la nostra sconfitta era probabile, che la si favorisse e parlò di un compenso in denaro che per me doveva essere intorno ai 6-7.000.000 di lire. lo rimasi sconvolto. Era la prima volta che mi veniva fatta una proposta del genere. Dissi che non ci stavo e me ne tornai in camera; Wilson da parte sua disse che non se ne faceva niente. La mattina dopo, da cenni, sguardi e mezze parole di Wilson ebbi la sensazione che la decisione di falsare l’incontro non era stata affatto revocata. E decisi allora di non giocare».

Le sue, e quelle di altri, dichiarazioni mandano società in serie B, Lazio e Milan, altre vengono penalizzate. Giocatori come Albertosi sono radiati, altri cancellati per due o più anni dagli almanacchi calcistici, come i suoi compagni di squadra Cacciatori, Zucchini,Wilson, Giordano e Manfredonia. Lui stesso si becca una squalifica di 4 mesi per omessa denuncia. Maurizio Montesi però non passa per un eroe, anzi lui è l’antieroe per eccellenza. Così, pur ristabilito dall’infortunio non trova più posto, se non per una decina di partite (dove fa a tempo però a d’infortunarsi nuovamente. Casualità? Fato? Premeditazione? Vallo a sapere) nella Lazio retrocessa, nonostante il fatto che uno della sua tempra in serie B farebbe comodo, eccome. Non bastasse questa specie di mobbing, deve girare armato perché subisce minacce in continuazione, persino allenarsi diventa un inferno poiché dalle tribune gli viene tirato addosso di tutto.

La vicenda del calcioscommesse
Alla scadenza del contratto con la Lazio non trova uno straccio di squadra che punti su di lui, meglio quindi lasciare un mondo che forse non è stato mai veramente il suo. Da contestatore è passato a traditore, spione e questo, in un mondo omertoso come il calcio, non si perdona. Maurizio scompare completamente dai radar, la sua damnatio memoriae è simile a quella che subì nella storia (fatti i dovuti distinguo) il faraone Akhenaton, riscoperto solo alla fine del XIX secolo. Forse l’ha cercata lui più che subirla. Forse ha capito la lezione che, se “il delitto non paga”, l’onestà morale e la coerenza sono ancora da meno. E forse tener la schiena diritta non sempre serve, tanto vale saltar la barricata. E così del calciatore scomparso, del grande accusatore, del contestatore, si sente riparlare solo agli inizi degli anni ’90, e non in maniera edificante.



Link: https://ilnobilecalcio.it/2021/12/12/co ... -memoriae/
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Piazzale Montello
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Re: Compagni calciatori

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LAMBERTO BORANGA

Era un matto, Lamberto Boranga. Era un matto che volava, cospargendo di magia le aree di rigore italiane.

Non portava i guanti, in quegli eretici anni ’70, gli bastavano un cappello in bilico sull’indisciplinata chioma, dei folti baffi e degli occhi azzurri, di un azzurro trasparente e rivoluzionario.

Aveva appreso da Albertosi il lavoro del guastafeste, il mestiere di chi vuole costantemente stare sulla linea di confine tra paradiso e inferno, di chi nell’area piccola può essere angelo e demone.

Gliel’aveva spiegato a Firenze, il grande Ricky: quella del portiere doveva essere un’arte, un’esigenza innata, una performance da reiterare domenica dopo domenica. Boranga aveva preso appunti e aveva deciso di rinnovare i concetti del suo illustre predecessore.

Il berretto, dunque. Più che come semplice oggetto funzionale fungeva da amuleto, da talismano in grado di esorcizzare timori e recondite paure.

Boranga fiutava un’azione pericolosa per la sua Reggiana, posava la mano sul cappello, si spogliava rapidamente la testa e, tenendo fissa la visiera tra indice e pollice, lanciava il berretto per aria, cercando il cielo. Un gesto che incantava il pubblico, un gesto che distraeva i tanti attaccanti pronti a giustiziarlo.

Fece la sua fortuna, quell’azione ripetuta più volte nell’arco dei novanta minuti. Lo condusse fino alla Coppa Uefa con il Cesena di mister Marchioro e del patron Dino Manuzzi. Il popolo degli ‘Ippocampi’ bianconeri nutrì da subito un amore sconfinato per quell’eclettico guardiano dei pali, osservò ammirato i suoi eccessi, le sue prese miracolose.

Alla Fiorita beveva caffè, ‘Bongo’, lo faceva se vittima di mal di testa o se, semplicemente, annoiato dallo spettacolo offerto dagli altri ventuno attori al suo fianco.

Si faceva consegnare la tazzina da un dirigente, si accovacciava a lato della porta e sorseggiava la pozione araba dando un occhio al campo. Un servizio bar richiesto e ottenuto direttamente sul prato verde.

A Parma, invece, scioccati compagni lo videro aggrapparsi sulla traversa durante un’amichevole infrasettimanale. Si arrampicò e si sedette sul montante orizzontale, gridando indicazioni alla squadra come se nulla fosse.

Sempre in maglia ducale, Boranga arrivò a palleggiare contro la traversa: una, due, tre volte nel corso di alcune partite. Forse una sfida al destino, forse una sfida alla salute degli afficionados crociati.

Leggenda e realtà, racconto favoloso e dato storico: in Boranga tutto s’intreccia, tutto si disperde, accompagnato dal sottofondo dei fantasiosi anni ’70, quelli di Led Zeppelin e Black Sabbath, quelli del boom economico e delle battaglie sociali.

Battaglie che combatteva in prima linea anche ‘Bongo’, profondamente influenzato da Ernesto Che Guevara. Era portiere come lui, il ‘Che’, era vicino alla gente e, proprio come il nativo di Forlì era medico.

Già, perché Boranga negli anni aveva affiancato alla carriera calcistica una brillante carriera universitaria, laureandosi in Biologia prima e Medicina poi.

Gianni Mura non fu convinto della seconda laurea di quel ragazzone che, nel tempo libero, si dilettava a scrivere poesie. Il portiere parmense prese così il giornalista sottobraccio e lo condusse con sé alla discussione della propria tesi. Mura ascoltò e confermò, comprendendo che, quel Boranga, matto lo era per davvero.

Seguendo gli ideali professati dall’altro suo mito politico, Enrico Berlinguer, il medico senza guantoni si presentò fuori dalle fabbriche, guidò picchetti notturni e scioperi, prese parte a comizi e alla campagna elettorale del PCI cesenate, trascinandolo ad uno storico 34,4%.

Con Giorgio Chinaglia traspose il pensiero in azione. Sbeffeggiò il ‘Long John’ laziale come mai nessuno aveva fatto, anticipandolo in uscita e lanciandogli il pallone sulla fronte: fu un atto irriverente, fu lesa maestà.

Bissò quel gesto all’Olimpico quando, dopo aver fermato la Roma sul 2-2, uscì dal campo con il pugno chiuso. “Perché l’ho fatto? Perché sono comunista e ho salutato i compagni di Cesena che sono venuti a vedermi a Roma”, dichiarò alla stampa.

‘Bongo’ da quei lontani anni ’70 non ha mai smesso di giocare, ancora oggi, quasi ottantenne, difende i pali della Marottese, società marchigiana di terza categoria.

Nel lungo lasso temporale trascorso dagli anni professionistici, il folignese è stato medico rinomato e atleta poliedrico, segnando svariati record internazionali nel salto in alto, salto triplo e salto in lungo all’interno delle categorie master.

Sembra infinito, Lamberto Boranga, sembra non sentire lo scorrere del tempo.

D’altronde lo dicevano sugli spalti: era un matto, ‘Bongo’, e matto lo è ancora adesso.


Link: https://athletamag.com/lamberto-boranga ... vldwo3ZPd0
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