Testimonianza e tradizione...a briglia sciolta

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Plinio
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Re: Testimonianza e tradizione...a briglia sciolta

Messaggio da Plinio »

Budiulik ha scritto: gio 1 dic 2022, 13:44
piazza ha scritto: mer 25 mag 2022, 19:32 SALUTAMI LIVORNO di Curzio Malaparte

Non ero mai stato a Livorno, e la prima volta che m'incontrai con dei livornesi m'innamorò la loro parlata larga e cantante, e insieme il rosso delle loro labbra. Un rosso che non era quella vinoso, paonazzo, della gente di mare, né il rosa pallido di tutti gli altri toscani: ma un bel vermiglio, proprio il vermiglio del sangue. E le labbra eran giovani, di ragazzi sui vent'anni che avevano lasciato la casa, la bottega e il porto per correre ad arruolarsi volontari nella Brigata Cacciatori delle Alpi, quella di Garibaldi. S'era all'inizio della guerra, ai primi di giugno del 1915, a Perugia, accantonati nel convento francescano di Monte Ripido, appena fuori porta a pochi passi dalla polveriera. Si dormiva nelle celle dei frati, si coglieva l'insalata nell' orto, si consumava il rancio nel refettorio, e la prigione era in sacrestia. Noi toscani eravamo in buon numero, diciassette di Prato, una ventina di Livorno, qualche pisano, ma pochi; di fiorentini neppur l'ombra. Il resto eran volontari d'ogni parte d'Italia, specie delle Romagne. E fosse la disciplina, fosse la novità e la semplicità di quella vita, fosse l'assenza di fiorentini, si viveva in santa pace, s'andava d'accordo come fratelli, ci si voleva tutti bene, senza liti, senza invidie e senza gelosie. La parlata dei livornesi, larga, cadenzata, sonora, al tempo stesso violenta e dolce, mi pareva nascesse dall'ebrezza di un sangue troppo vivo e ricco. Le parole uscivan loro di bocca già tutte fatte, rotonde, pienotte, si sentiva che provavan gusto a pronunziarle, a dar loro quell'accento, quella cadenza, quella forza. Eran parole in forma di seni giovani, di frutti maturi e polposi, pesche, albicocche, susine, pomodori, e dovevan lasciar nel palato un sapore forte e soave. Era forse il succo di quelle parole che tingeva di vermiglio le loro labbra carnose. Se chiudevo gli occhi, ascoltandoli, mi sembrava di veder sgorgare dalla loro bocca, come da una cornucopia, un fiume di bei frutti maturi: ne sentivo anch'io il sapore caldo e profumato, e pensavo che la lingua toscana, così nobile e magra, prendeva da quella pronuncia ricca, pingue, da quell'accento cantante, da quella cadenza felice, un tono dovizioso, quasi orientale. Immaginavo Livorno come una città opulenta, dalle vie larghissime, dai palazzi sontuosi, affacciata su un mare denso, d'un azzurro cruento, dove i tramonti mettevano un riflesso di vigna, di verziere, di frutteto, il riverbero di un'estate d'oro, di un autunno colmo di doni. A poco a poco avevo disertato la compagnia dei miei pratesi: mi parevano toscani pallidi, sbiaditi, in confronto dei livornesi. I quali son certo il popolo più genuino e sincero che io conosca: e quell'esser, la loro città, nata nella granducale età barocca, li fa barocchi, ma a modo lora, senza tanti riccioli e tanti fronzoli. Gonfi, ma senza fronzoli. Come i loro palazzi, le loro chiese, le loro donne. E chiacchieroni, ma di poche parole. Intonati a meraviglia, direi, se non proprio con la storia della Toscana, che è magra, arguta, cattiva e tien tutta nelle Cronache di Dino Compagni e in alcune pagine del Macchiavelli, col paesaggio loro, con quei dolci colli che digradano in mare, quella campagna verde e gialla che s'impadula insensibilmente, e diventa maremma quando meno te l'aspetti. Imparentati, con quel loro paesaggio solenne e delicato, da cui l'ulivo, il pino e il leccio traggono, più che non diano, dignità misura. Dalla descrizione che i volontari livornesi mi facevano della loro citta, ero venuto nel sospetto, per me doloroso, che Firenze non fosse più la capitale della Toscana, che Livorno le avesse rubato il posto. «O dove le trovi» mi dicevano «dove le trovi a Firenze quelle piazze, quelle strade, quei palazzi? O i Quattro Mori? O dove lo trovi il mare? E il porto? Il porto dove lo trovi?». Più che il mare, m'ero persuaso che i livornesi amino il porto. Me ne parlavano come di un luogo di delizia, come di un teatro dove si svolgono scene meravigliose, e avvengono straordinari incontri, dove le più varie e strane genti del mondo si ritrovano come a casa loro, e si raccolgono le mercanzie più preziose del mondo e del mare. Pirati, mercanti, marinai dal viso bruciato dal salmastro, negri, arabi, inglesi, greci, chicchi di caffè, russi pelosi e malinconici, donne di tutti i climi, odalische coperte di veli, indiane col puntino rosso in mezzo alla fronte, e botti di vino profumato, montagne di stoffe, di droghe, di tabacco biondo e navi, navi, navi, che vanno e vengano riempiendo il cielo di nubi di fumo e di bagliori bianchi di vele Parlavano della loro città, me ne descrivevano le bellezze e le grazie con pudica gelosia.
Il più ingenuo, il più innamorato era un ragazzo sui diciotto anni, maggiore di me di un anno, ed eravamo i più giovani di tutta la Brigata. Si chiamava Antenore e faceva non so che mestiere nobile e rozzo nel porto. «Tu vedessi Livolno!» - esclamava con quel suo accento largo e sonoro, e non finiva di decantarmi le magnificenze e le delizie della sua città, il cacciucco, le torpedini che son bicchieroni di rhum con uno schizzo di caffè, le passeggiate all' Ardenza, nei tramonti d'estate, e quell'odore di catrame, di salmastro, di pesce secco, quell'odore di cambusa e di scoglio.
«Dopo la guerra» mi diceva «ti porto con me a Livolno, a casa mia». E rideva, mi pigliava a braccetto, mi picchiava con le mani aperte sulle spalle, era alto e forte, e a quelle manate io rintronavo tutto. Ai primi di luglio ci mandarono al fronte, salimmo al Col di Lana. Il nostro reggimento doveva occupare i costoni di Agai e Salesei, difesi da profonde trincee di calcestruzzo, da nidi di mitragliatrici, da siepi di ferro spinato.
Appena ùscimmo dalle case di Digonera, in fondo alla valle del Cordevole, e prendemmo per l'erta che conduce al villaggio di Salesei, le batterie nemiche del Forte la Corte ci diedero il primo saluto, fu come il fulmine che rimbalza sulle rupi, e schianta gli alberi, i pastori, le greggi. «Sotto ragazzi, sotto!» si udiva gridare intorno. Antenore mi aveva agguantato per un braccio, mi tirava su, vociando: parlava in mezzo ai bagliori gialli e rossi degli SCOPPI, un marinaio sul ponte di una nave in fiamme. Ora si camminava in una selva d'abeti, era già sera, il cannone taceva, un chiaro e gelido silenzio scendeva dagli alti monti, dal cielo tutto tremante di pallide stelle. Giungemmo a Salisei, attraversando la strada delle Dolimiti, le case di Livinallongo bruciavano sulla nostra sinistra, la voce del fiume saliva dalla valle nera, empiva a poco a poco la notte. Qualche morto giaceva riverso nei fossati, tra i cespugli, sotto gli abeti: più su in una radura del bosco, splendevano argentee nell'umida luna le croci di un piccolo cimitero di guerra.
Cimitero di fanteria forse un giorno ci vengo a cuccà, cantavano i soldati. A un tratto un rauco clamore venne giù rotolando lungo le pendici del Col di Lana. Erano i fanti della Brigata Calabria, che attaccavano il Vallone della Morte. Quel lontano vociare confuso, quel crepitio di fucili, i tonfi sordi delle bombe a mano, gli urli dei feriti mi stringevano il cuore.
Ma Antenore rideva, canticchiava, si voltava indietro ogni tanto a gridare ai compagni: «Forza Livolno!». A un certo punto ci fecero stendere al riparo di alcune rocce. Davanti a noi, attraverso i rami degli abeti, si intravedeva un bel prato verde, la luna si rifletteva nell'erba come in un lago, sulla sponda opposta del prato luccicavano i reticolati, biancheggiavano i sacchetti a terra di una trincea. Disteso al mio fianco, Antenore taceva, e ogni po' mi guardava, un sorriso triste gli rompeva l'ombra del viso. Poi a un tratto mi disse: «Se vai a Livolno prima di me, ricordati di mandarmi una cartolina». All'alba venne l'ordine di attaccare, ci buttammo di corsa nel bel prato verde, e Antenore subito cadde, tuffò il viso nell'erba. Lo trascinai dietro il tronco di un abete, gli sollevai la testa. Sorrideva. E gli sgorgavan di bocca fiotti di sangue vermiglio come frutti polposi, maturi. Intorno le pallottole sibilavano rabbiose, Antenore mi fissava, voleva parlare. Fece uno sforzo: «Salutami Livolno» disse, e rovesciò la testa all'indietro.
Alcuni mesi dopo, andando in licenza, mi svegliai alla stazione di Pisa. Scesi dalla tradotta, mi misi a girellare in cerca del treno per Firenze e mi trovai senza accorgermene in quello per Livorno. Era una mattina di gennaio, fredda e trasparente, la voce e l'odore del mare mi vennero incontro per le larghe strade ancora deserte. Mi pareva di camminare accanto ad Antenore, la sua vicinanza m'intiepidiva la guancia, il braccio, il fianco. Lo sentivo respirare, sorridere.
Vagai tutto il giorno per la città. Livorno era già per me, che la vedevo per la prima volta, una città cara, familiare, ritrovavo e riconoscevo a ogni passo i luoghi di una mia misteriosa infanzia, gli aspetti di una città sognata, morta per sempre. Verso sera comprai una cartolina da un tabaccaio, mi misi al tavolino di un caffè del porto, e scrissi sulla cartolina l'indirizzo di Antenore:
Soldato del 51° Fanteria, Cimitero di guerra della Brigata Cacciatori delle Alpi, Salesei, Col di Lana.
Imbucai la cartolina alla stazione, e vedevo il postino militare salire da Digonera a Salesei, prendere per il sentiero attraverso il bosco, spingere il cancellino di legno, curvandosi sulle croci e leggere i nomi dei miei compagni, trovar la croce di Antenore, posar la cartolina sulla fossa ricoperta di neve. Sulla cartolina avevo scritto:
«Tanti saluti da Livolno».
Boia deh ma vaffanculo ma fatto piange :)
Anche a me.., piazza vainculo !
Quando scenderai
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Plinio
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Re: Testimonianza e tradizione...a briglia sciolta

Messaggio da Plinio »

spiritual ha scritto: mer 23 nov 2022, 18:28 Che sospirone! Che tempi e quanto hanno sofferto di più e avuto meno i genitori della mia generazione. Te , Plinio, hai un anno meno della mia sorella e io sono più vecchio di te di quasi una generazione (16 anni). Spesso, da bimbetto, andavo al mare all'Aia, così vicina a Piazza Mazzini dove abitavo nello stabile più brutto, l'unico piccolo di due piani proprio nel centro. C'è sempre. Ai miei tempi accanto, c'era la latteria di Berta (famosa!) e dalla parte opposta prima la USL, poi una specie di discoteca e infine una sala giochi.
Voglio far capire a chi legge che anche se l'Aia non era più quella che descrive Sposini, l'acqua davanti a quella minuscola striscia di sabbia era la peggiore di tutto il litorale. Andare al mare lì più che da pellai era da disgraziati, tanto che era diventato un modo di dire quello che "UN SONO MICA DA AIA". Qualche volta, qualche domenica, mi portavano ai Trotta e mi sembrava un altro mondo. Una volta il mi nonno pagò a tutti il trenino per andare a Tirrenia, il trenino che faceva il capolinea a Barriera Margherita. In occasioni del genere si portava dietro tutte le borse con il mangiare fatto in casa dalla mi nonna e da mi madre. Si andava a mangiare in pineta, seduti sugli asciugamani, e poi quasi tutti dormivano. Quella volta, nella sabbia trovai un soldo, non so se erano 100 lire, e corsi subito a darlo a mi pà. Ero contento ed ero contento anche perché vedevo che lo era pure lui.
Anche se sono passati più di 60 anni, quegli avvenimenti che hanno creato emozioni non si scordano.
Oggi, per essè contenti ci vuole ben altro e un s'apprezza nulla. Giovani e meno giovani mangiano, bevono, girano il mondo e trombano più di prima, ma sono meno felici.
Ce lo chiediamo perché?
Berta de… ci ho fatto una merenda e via.
Lo stabile so bene qual’e’ … ai mi tempi erano rimasti solo barre e sala giochi.
Ma un si doveva anda a cena da Cecco con Ateo o sbaglio ?
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spiritual
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Re: Testimonianza e tradizione...a briglia sciolta

Messaggio da spiritual »

Leggi gli MP, te l'avevo già scritto giorni fa.
Ora ti ho scritto nuovamente.
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Etruria
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Re: Testimonianza e tradizione...a briglia sciolta

Messaggio da Etruria »

Plinio ha scritto: gio 1 dic 2022, 15:56
Budiulik ha scritto: gio 1 dic 2022, 13:44
piazza ha scritto: mer 25 mag 2022, 19:32 SALUTAMI LIVORNO di Curzio Malaparte

Non ero mai stato a Livorno, e la prima volta che m'incontrai con dei livornesi m'innamorò la loro parlata larga e cantante, e insieme il rosso delle loro labbra. Un rosso che non era quella vinoso, paonazzo, della gente di mare, né il rosa pallido di tutti gli altri toscani: ma un bel vermiglio, proprio il vermiglio del sangue. E le labbra eran giovani, di ragazzi sui vent'anni che avevano lasciato la casa, la bottega e il porto per correre ad arruolarsi volontari nella Brigata Cacciatori delle Alpi, quella di Garibaldi. S'era all'inizio della guerra, ai primi di giugno del 1915, a Perugia, accantonati nel convento francescano di Monte Ripido, appena fuori porta a pochi passi dalla polveriera. Si dormiva nelle celle dei frati, si coglieva l'insalata nell' orto, si consumava il rancio nel refettorio, e la prigione era in sacrestia. Noi toscani eravamo in buon numero, diciassette di Prato, una ventina di Livorno, qualche pisano, ma pochi; di fiorentini neppur l'ombra. Il resto eran volontari d'ogni parte d'Italia, specie delle Romagne. E fosse la disciplina, fosse la novità e la semplicità di quella vita, fosse l'assenza di fiorentini, si viveva in santa pace, s'andava d'accordo come fratelli, ci si voleva tutti bene, senza liti, senza invidie e senza gelosie. La parlata dei livornesi, larga, cadenzata, sonora, al tempo stesso violenta e dolce, mi pareva nascesse dall'ebrezza di un sangue troppo vivo e ricco. Le parole uscivan loro di bocca già tutte fatte, rotonde, pienotte, si sentiva che provavan gusto a pronunziarle, a dar loro quell'accento, quella cadenza, quella forza. Eran parole in forma di seni giovani, di frutti maturi e polposi, pesche, albicocche, susine, pomodori, e dovevan lasciar nel palato un sapore forte e soave. Era forse il succo di quelle parole che tingeva di vermiglio le loro labbra carnose. Se chiudevo gli occhi, ascoltandoli, mi sembrava di veder sgorgare dalla loro bocca, come da una cornucopia, un fiume di bei frutti maturi: ne sentivo anch'io il sapore caldo e profumato, e pensavo che la lingua toscana, così nobile e magra, prendeva da quella pronuncia ricca, pingue, da quell'accento cantante, da quella cadenza felice, un tono dovizioso, quasi orientale. Immaginavo Livorno come una città opulenta, dalle vie larghissime, dai palazzi sontuosi, affacciata su un mare denso, d'un azzurro cruento, dove i tramonti mettevano un riflesso di vigna, di verziere, di frutteto, il riverbero di un'estate d'oro, di un autunno colmo di doni. A poco a poco avevo disertato la compagnia dei miei pratesi: mi parevano toscani pallidi, sbiaditi, in confronto dei livornesi. I quali son certo il popolo più genuino e sincero che io conosca: e quell'esser, la loro città, nata nella granducale età barocca, li fa barocchi, ma a modo lora, senza tanti riccioli e tanti fronzoli. Gonfi, ma senza fronzoli. Come i loro palazzi, le loro chiese, le loro donne. E chiacchieroni, ma di poche parole. Intonati a meraviglia, direi, se non proprio con la storia della Toscana, che è magra, arguta, cattiva e tien tutta nelle Cronache di Dino Compagni e in alcune pagine del Macchiavelli, col paesaggio loro, con quei dolci colli che digradano in mare, quella campagna verde e gialla che s'impadula insensibilmente, e diventa maremma quando meno te l'aspetti. Imparentati, con quel loro paesaggio solenne e delicato, da cui l'ulivo, il pino e il leccio traggono, più che non diano, dignità misura. Dalla descrizione che i volontari livornesi mi facevano della loro citta, ero venuto nel sospetto, per me doloroso, che Firenze non fosse più la capitale della Toscana, che Livorno le avesse rubato il posto. «O dove le trovi» mi dicevano «dove le trovi a Firenze quelle piazze, quelle strade, quei palazzi? O i Quattro Mori? O dove lo trovi il mare? E il porto? Il porto dove lo trovi?». Più che il mare, m'ero persuaso che i livornesi amino il porto. Me ne parlavano come di un luogo di delizia, come di un teatro dove si svolgono scene meravigliose, e avvengono straordinari incontri, dove le più varie e strane genti del mondo si ritrovano come a casa loro, e si raccolgono le mercanzie più preziose del mondo e del mare. Pirati, mercanti, marinai dal viso bruciato dal salmastro, negri, arabi, inglesi, greci, chicchi di caffè, russi pelosi e malinconici, donne di tutti i climi, odalische coperte di veli, indiane col puntino rosso in mezzo alla fronte, e botti di vino profumato, montagne di stoffe, di droghe, di tabacco biondo e navi, navi, navi, che vanno e vengano riempiendo il cielo di nubi di fumo e di bagliori bianchi di vele Parlavano della loro città, me ne descrivevano le bellezze e le grazie con pudica gelosia.
Il più ingenuo, il più innamorato era un ragazzo sui diciotto anni, maggiore di me di un anno, ed eravamo i più giovani di tutta la Brigata. Si chiamava Antenore e faceva non so che mestiere nobile e rozzo nel porto. «Tu vedessi Livolno!» - esclamava con quel suo accento largo e sonoro, e non finiva di decantarmi le magnificenze e le delizie della sua città, il cacciucco, le torpedini che son bicchieroni di rhum con uno schizzo di caffè, le passeggiate all' Ardenza, nei tramonti d'estate, e quell'odore di catrame, di salmastro, di pesce secco, quell'odore di cambusa e di scoglio.
«Dopo la guerra» mi diceva «ti porto con me a Livolno, a casa mia». E rideva, mi pigliava a braccetto, mi picchiava con le mani aperte sulle spalle, era alto e forte, e a quelle manate io rintronavo tutto. Ai primi di luglio ci mandarono al fronte, salimmo al Col di Lana. Il nostro reggimento doveva occupare i costoni di Agai e Salesei, difesi da profonde trincee di calcestruzzo, da nidi di mitragliatrici, da siepi di ferro spinato.
Appena ùscimmo dalle case di Digonera, in fondo alla valle del Cordevole, e prendemmo per l'erta che conduce al villaggio di Salesei, le batterie nemiche del Forte la Corte ci diedero il primo saluto, fu come il fulmine che rimbalza sulle rupi, e schianta gli alberi, i pastori, le greggi. «Sotto ragazzi, sotto!» si udiva gridare intorno. Antenore mi aveva agguantato per un braccio, mi tirava su, vociando: parlava in mezzo ai bagliori gialli e rossi degli SCOPPI, un marinaio sul ponte di una nave in fiamme. Ora si camminava in una selva d'abeti, era già sera, il cannone taceva, un chiaro e gelido silenzio scendeva dagli alti monti, dal cielo tutto tremante di pallide stelle. Giungemmo a Salisei, attraversando la strada delle Dolimiti, le case di Livinallongo bruciavano sulla nostra sinistra, la voce del fiume saliva dalla valle nera, empiva a poco a poco la notte. Qualche morto giaceva riverso nei fossati, tra i cespugli, sotto gli abeti: più su in una radura del bosco, splendevano argentee nell'umida luna le croci di un piccolo cimitero di guerra.
Cimitero di fanteria forse un giorno ci vengo a cuccà, cantavano i soldati. A un tratto un rauco clamore venne giù rotolando lungo le pendici del Col di Lana. Erano i fanti della Brigata Calabria, che attaccavano il Vallone della Morte. Quel lontano vociare confuso, quel crepitio di fucili, i tonfi sordi delle bombe a mano, gli urli dei feriti mi stringevano il cuore.
Ma Antenore rideva, canticchiava, si voltava indietro ogni tanto a gridare ai compagni: «Forza Livolno!». A un certo punto ci fecero stendere al riparo di alcune rocce. Davanti a noi, attraverso i rami degli abeti, si intravedeva un bel prato verde, la luna si rifletteva nell'erba come in un lago, sulla sponda opposta del prato luccicavano i reticolati, biancheggiavano i sacchetti a terra di una trincea. Disteso al mio fianco, Antenore taceva, e ogni po' mi guardava, un sorriso triste gli rompeva l'ombra del viso. Poi a un tratto mi disse: «Se vai a Livolno prima di me, ricordati di mandarmi una cartolina». All'alba venne l'ordine di attaccare, ci buttammo di corsa nel bel prato verde, e Antenore subito cadde, tuffò il viso nell'erba. Lo trascinai dietro il tronco di un abete, gli sollevai la testa. Sorrideva. E gli sgorgavan di bocca fiotti di sangue vermiglio come frutti polposi, maturi. Intorno le pallottole sibilavano rabbiose, Antenore mi fissava, voleva parlare. Fece uno sforzo: «Salutami Livolno» disse, e rovesciò la testa all'indietro.
Alcuni mesi dopo, andando in licenza, mi svegliai alla stazione di Pisa. Scesi dalla tradotta, mi misi a girellare in cerca del treno per Firenze e mi trovai senza accorgermene in quello per Livorno. Era una mattina di gennaio, fredda e trasparente, la voce e l'odore del mare mi vennero incontro per le larghe strade ancora deserte. Mi pareva di camminare accanto ad Antenore, la sua vicinanza m'intiepidiva la guancia, il braccio, il fianco. Lo sentivo respirare, sorridere.
Vagai tutto il giorno per la città. Livorno era già per me, che la vedevo per la prima volta, una città cara, familiare, ritrovavo e riconoscevo a ogni passo i luoghi di una mia misteriosa infanzia, gli aspetti di una città sognata, morta per sempre. Verso sera comprai una cartolina da un tabaccaio, mi misi al tavolino di un caffè del porto, e scrissi sulla cartolina l'indirizzo di Antenore:
Soldato del 51° Fanteria, Cimitero di guerra della Brigata Cacciatori delle Alpi, Salesei, Col di Lana.
Imbucai la cartolina alla stazione, e vedevo il postino militare salire da Digonera a Salesei, prendere per il sentiero attraverso il bosco, spingere il cancellino di legno, curvandosi sulle croci e leggere i nomi dei miei compagni, trovar la croce di Antenore, posar la cartolina sulla fossa ricoperta di neve. Sulla cartolina avevo scritto:
«Tanti saluti da Livolno».
Boia deh ma vaffanculo ma fatto piange :)
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Commosso

Mi vengono a mente tante cose
I vecchi livornesi,le passare generazioni
I poveri 'bimbi' di allora
Strappati agli affetti familiari
E buttati in guerra allo sbaraglio
Sacrificati al capriccio dei potenti

C'è tanto in questo passo,
Tanto anche dei nostri modi di fare
E della nostra livornesita'
Anche se è passato un secolo.
Livorno ovunque giocherai
Noi siamo della Nord e non ti lasceremo mai
E tutti uniti..

Magnozzi Stua Silvestri Merlo Bimbi Lessi Picchi
Lupo Balleri Maggini Miguel Cristiano Lucarelli IGOR
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ateo
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Re: Testimonianza e tradizione...a briglia sciolta

Messaggio da ateo »

"Bon per i tu fii Giuliano...se l'hai ritto tiencelo"
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Fabio
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Re: Testimonianza e tradizione...a briglia sciolta

Messaggio da Fabio »

Stasera ero al Goldoni e non mi ero mai soffermato a visitare il foyer: un vero e proprio museo sul nostro Piero Mascagni. Condivido il pianoforte con cui ha composto la Cavalleria Rusticana; come vedete questa chicca di storia è sotto gli occhi di tutti, ma magari nessuno l'ha mai ammirata come merita.

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Triglia amaranto
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Re: Testimonianza e tradizione...a briglia sciolta

Messaggio da Triglia amaranto »

Fabio ha scritto: sab 10 dic 2022, 22:46 Stasera ero al Goldoni e non mi ero mai soffermato a visitare il foyer: un vero e proprio museo sul nostro Piero Mascagni. Condivido il pianoforte con cui ha composto la Cavalleria Rusticana; come vedete questa chicca di storia è sotto gli occhi di tutti, ma magari nessuno l'ha mai ammirata come merita.

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Io non lo sapevo, grande Fabio!! Quando capiterò al Goldoni ci darò un occhio
ROOOOOOOOAAAAARRRRRRR
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piazza
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Re: Testimonianza e tradizione...a briglia sciolta

Messaggio da piazza »

SON DI LIVORNO:

Sarei potuto nasce' a Viarello
se un primo maggio, mi' pà senza cervello,
avesse portato mi' madre a fa' franella
nella 'antina della su' sorella.
E invece è andato a fallo sul Romito
e ora tocco ir cielo con un dito:
ragazzi, de' son di Livorno.
Ho visto il Telegrafo diventà Tirreno,
ho visto il Cantiere Orlando venì meno,
ho visto chiude l' Odeon e ir Politeama,
ho visto gente fa' la vita grama.
Co' su panini Giovanni se n'è andato,
ha chiuso la bottega anche Torquato,
e insieme ai Lupi, anche se a mal partito,
il solo livornese ha resistito:
con quella faccia scorpita dal libeccio,
con quella ghigna dura come un leccio,
con quello sguardo di sarmastro intriso,
che ti colpisce quando vorta il viso.
Magari monta a crai sur filobusse
ma per critià l'artri ce ne fusse;
In palestra, a corre, a perde chili
ma 'un li toccà il ponce del Civili.
Un passo indietro mai nemmen per sogno,
ma chiedi pure quando n'hai bisogno.
L' ho visto a fa' brucia il lunedì,
buttà nei fossi le teste di Modì.
Ho visto dei ragazzi baldi e fieri,
l' ho visti piange' per chi c'era solo ieri.
L' ho visti fa' a cazzotti lì all'Ardenza,
l' ho visti da' i vaini a chi era senza.
Sono fissi e ribaditi lì, a stecchetta,
ma sempre pronti a fa’ la ‘olletta.
E' questo il livornese e io ne sono fiero,
con il suo fare acceso e anche sincero,
si crede d'esse solo un gran tifoso
e invece è anche leale e generoso.
'Un ciò una lira per fa' cantà un ceo,
ma d'esse' livornese mi ci beo.
_ Vorrei sapé cos'è quell'importanza,
c'hai du' figlioli e vivi in una stanza !_
_ De' son poveri ma belli, son facce aperte e chiare,
'un ciò una lira, ma per pote' sognare,
mi basta anda' ai Tre Ponti e vede' ir mare !_

ANDREA VANNI
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spiritual
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Re: Testimonianza e tradizione...a briglia sciolta

Messaggio da spiritual »

Mi tocca nell'intimo e mi fa sentì fiero di essere nato in questa città e averne ereditato il DNA.
(la rima è solo casuale. Mi accorgo ora di averla fatta)
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Cuccu
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Re: Testimonianza e tradizione...a briglia sciolta

Messaggio da Cuccu »

Un so se va qui comunque: ero militare, stavo andando in licenza, ero sul treno, vado nel corridoio a fumá una sigaretta e trovo una bella ragazza al finestrino che aveva dei bei capelli biondi lunghi e un pochino dietro un signore con i baffi.
La ragazza ogni 30 secondi con la mano si tirava i capelli indietro e li mandava in faccia al signore.
Dopo 3-4 volte il signore educatamente gli dice “scusi signorina mi sta sbattendo i capelli in bocca”; lì mi rendo conto che é livornese il signore.
La ragazza risponde “guardi che io i capelli me li lavo tutti i giorni” e il signore risponde “dè anche io i coglioni me li lavo tutti i giorni, ma un te li metto mia in bocca”. :lol: :lol: :lol:
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