Personaggi di oggi e di ieri

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Personaggi di oggi e di ieri

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ZEB

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con queste 3 immagini, voglio ricordare un grande personaggio che ancora oggi non si sa dove sia finito.
Grande Zeb, un saluto ovunque tu sia
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spiritual
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Re: Personaggi di oggi e di ieri

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Magico Zeb, inimitabile.
Che bellezza!
Un ce n'è per nessuno.
Speriamo di restare così. Per certe cose è troppo importante non cambiare.
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piazza
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Re: Personaggi di oggi e di ieri

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ANGELO FROGLIA

quando si parla delle tre false teste di Modigliani che furono ritrovate nel 1984, si pensa immediatamente agli studenti che per burla ne fecero una e non si parla quasi mai, o lo si fa in maniera del tutto marginale, di colui che fece le altre due.
questo perchè si vuole evidenziare lo scherzo, ben architettato e che è in linea con la "livornesità", ma si tace sulla provocazione che proprio Froglia volle lanciare e che è livornesità pura, perchè da artista prese per il culo tutto il mondo dell'arte, con un gesto dal significato ben più profondo di quello del gruppetto di studenti sui quali si accesero le luci della ribalta in quel periodo.
probabilmente essendo personaggio meno "divertente" da esibire al grande pubblico rispetto a dei bei ragazzotti vivaci e simpatici, farlo scivolare nell'ombra non deve essere sembrata una cattiva idea.
siccome anch'io stavo per fare lo stesso errore che probabilmente abbiamo commesso in tanti e l'ho evitato solo documentandomi per puro caso (ho scoperto che Angelo Froglia era il padre di una ragazza che era alle medie in classe mia e quindi questo mi ha incuriosito e ho voluto approfondire l'argomento), vi giro questo:

Angelo Froglia, l'uomo che ha ingannato il mondo dell'arte con la "beffa di Modigliani"
Nel 1984, Angelo Froglia ha fatto ritrovare delle finte sculture di Modigliani e il mondo dell'arte è impazzito. Un nuovo documentario racconta la sua storia.


Tutti almeno una volta abbiamo detto "questo potrei farlo anch'io" commentando una certa opera d'arte, riso di gusto nel sentire storie su inservienti di museo che buttano per sbaglio nella pattumiera prestigiose installazioni scambiandole per rifiuti o pensato che un bambino di tre anni armato di pastelli sarebbe perfettamente in grado di 'fare arte'.

E l'abbiamo fatto perché è una doppia rivincita. Nei confronti dell'artista, che difende uno status di eccezionalità che non capiamo e a cui crediamo non abbia diritto, e nei confronti di chi ne avvalora l'opera e la riconosce come tale dall'alto di una supposta autorità o perché la capisce. Cosa a cui nessuno crede mai davvero, anche perché spesso non c'è proprio niente da capire.

Nel 1984, Angelo Froglia—un artista 29enne con una storia travagliata alle spalle che, per mantenersi, lavorava come portuale—ha provato a prendersi una rivincita del genere. In quel periodo nella sua città, Livorno, si stava per celebrare il centenario della nascita di Modigliani e il comune aveva deciso di scandagliare il "fosso reale" (un canale che attraversa il centro cittadino) alla ricerca delle "teste di Modigliani"—alcune sculture perdute che secondo una leggenda locale l'artista avrebbe gettato nel canale nel 1909.

È così che era nata la vicenda passata alla storia come la "beffa di Livorno" o "beffa di Modigliani." Froglia aveva scolpito due grosse pietre a imitazione delle "teste di Modigliani" e le aveva gettate nel canale; qualche giorno dopo, dal fango del canale, erano venute fuori non due ma ben tre sculture che i maggiori critici d'arte italiani si erano subito affrettati a riconoscere come autentiche. Erano state esposte nella mostra di Livorno dedicata al centenario dell'artista, prima che si scoprisse che in realtà erano false.

La beffa non si era conclusa molto bene per Froglia. Gli autori della terza scultura erano alcuni studenti di Livorno che, per fare uno scherzo, avevano avuto la sua stessa idea: erano usciti allo scoperto per primi e avevano attirato su di loro tutta l'attenzione mediatica, con tanto di speciale del Tg1 in cui erano stati invitati a replicare la scultura in diretta, alla presenza di un notaio, per dimostrare di non essere dei mitomani. Froglia invece si era fatto avanti circa un mese dopo, soltanto per essere subito screditato dalla stampa.

In parte lo era stato a causa della sua storia personale, fatta di tossicodipendenza e di una condanna a tre anni dopo le sue azioni nella lotta armata tra le fila di Azione Rivoluzionaria, in parte perché il suo gesto non era uno scherzo. "Il mio intento era quello di evidenziare come attraverso un processo di persuasione collettiva, attraverso la Rai, i giornali, le chiacchiere tra persone, si potevano condizionare le condizioni della gente," avrebbe dichiarato più tardi in un'intervista. "Non mi interessava fare una burla." Per tutte queste ragioni, oggi il suo ruolo in questa vicenda viene ricordato solo raramente.

Angelo Froglia è morto esattamente 20 anni fa. Nel frattempo, la storia delle false teste di Modigliani è diventata iconica. Pare che a un certo punto Sgarbi abbia voluto comprarsele e una copia è stata ritrovata a casa di Craxi ad Hammamet. Qualche anno fa una delle teste originali scolpite da Froglia è finita su eBay al prezzo di un Modigliani vero.

Per ricordarlo e rendergli giustizia, qualche settimana fa è uscito un nuovo documentario, Angelo Froglia. L'inganno dell'arte, che per la prima volta vuole raccontare la sua storia e la complessità della sua figura. Ho parlato con Tommaso Magnano di Ramingo Produzioni, il regista del documentario, della storia di Froglia e del concetto di vero e falso nel mondo dell'arte.


VICE: Ciao Tommaso. Innanzitutto, come emerge bene dal documentario, Froglia non voleva produrre semplicemente dei "falsi."
Tommaso Magnano: Esatto, aveva anche usato delle pietre che Modigliani non avrebbe mai potuto usare, per rendere più palese la loro inautenticità. C'era un pensiero dietro, doveva essere una sorta di performance. I tre ragazzi, senza saperlo, l'hanno bruciato. Lui avrebbe voluto uscire allo scoperto soltanto adesso, 30 anni dopo, mostrando il filmato che documenta la realizzazione delle due teste, con cui ha poi partecipato al Torino Film Festival del 1984. Se calcoli che dopo due mesi le teste erano in mostra al Museo Modigliani, erano già state riconosciute come vere, erano sul punto di girare altri musei tra i più importanti del mondo… Dopo 30 anni, andando in giro come se fossero autentiche, le teste avrebbe reso inutile tutto il contorno. Per la critica e per i media è stato molto più facile far passare quell'evento come una goliardia fatta da tre ragazzini piuttosto che l'azione meditata di un uomo che, pur essendo un tossicodipendente e un ex terrorista [ex membro dell'organizzazione di estrema sinistra Azione Rivoluzionaria, Froglia era stato incarcerato a seguito di un attentato incendiario alla sede Cisnal di Livorno], ci aveva preso. Com'è nata quindi l'idea di fare un documentario su di lui?
Tutti i documentari biografici che ho fatto finora—sempre incentrati su personaggi bizzarri, al limite, come il mercenario Roberto Delle Fave—parlano del rapporto della nostra società con i mass media. In questo caso conoscevo la storia e mi interessava l'idea della beffa, che aveva a che fare con la riproducibilità dell'arte. Poi, guardando diversi vecchi documentari e servizi televisivi sul tema, ho notato che, anche se le teste ritrovate erano tre, si parlava sempre solo dei ragazzi che ne avevano fatta una mentre non si accennava che di sfuggita a questo Froglia, autore delle altre due. Così ho deciso di approfondire.

Mi sembra che il film cerchi di restituire a Froglia una dimensione artistica anche al di là della vicenda della beffa, che tra l'altro è avvenuta abbastanza tardi nella sua vita.
Esatto. La sua vita, per quanto breve, è stata molto intensa e ricca ed è stata uno dei motivi per cui all'epoca è stato praticamente messo a tacere: per via dei suoi trascorsi non era considerato degno di poter dire la sua. La breve notorietà che ha avuto l'ha fatto venire a galla ma Froglia aveva sempre fatto l'artista, non è che cercasse qualcos'altro. Ho voluto raccontare la sua vita perché è per la sua vita che è stato giudicato in quel momento.

Come hai fatto a mettere insieme il materiale per il documentario?
È stato complicato, anche perché persino a Livorno Froglia è poco conosciuto. Sono riuscito a mettermi in contatto con suo fratello, Massimo Froglia, che mi ha dato alcuni scritti di Angelo che vengono letti dalla voce fuori campo nel documentario. Per il resto, quasi tutte le immagini d'archivio, specie quelle in cui compare Froglia, erano legate alla vicenda della beffa e in quel periodo lui era in pessimo stato anche perché tutto il progetto gli era crollato addosso. C'è anche una sua intervista con Paolo Brosio trasmessa su Rete4.

Per me non è tanto importante vedere lui che parla, perché quello che ha fatto e scritto è molto più forte. Per questo ho anche inserito nel documentario il grosso della sua produzione pittorica.

Intorno alla storia delle beffa però c'è anche tutta una dimensione misteriosa: la morte improvvisa di Jeanne Modigliani, che aveva ricevuto la notizia dei falsi e voleva recarsi a Livorno; l'ipotesi che dietro il gesto di Froglia ci fosse in realtà un mandante occulto; la soffiata ricevuta dal critico d'arte Federico Zeri, il cui appello in televisione aveva spinto Froglia a uscire allo scoperto. Secondo te c'è una parte di verità che ancora non è venuta a galla?
Di sicuro, per quanto la vicenda sembrasse tutta un semplice scherzo, in gioco c'era molto di più. Tanto per cominciare, la portata economica delle opere—all'epoca del ritrovamento le teste valevano già 14 miliardi di lire ciascuna, senza contare il valore che avrebbero acquisito in seguito. È un discorso che per quanto riguarda Modigliani, che è considerato uno degli artisti più facili da falsificare, continua tutt'ora: per fare un esempio, qualche anno fa è stato arrestato come falsario addirittura il presidente degli Archives Modigliani, una delle massime autorità in materia. La storia della beffa è piena di personaggi il cui ruolo dev'essere ancora chiarito del tutto e di certo andrebbe approfondita ulteriormente. Ma di base, se anche Froglia avesse agito su commissione, il suo scopo sarebbe rimasto lo stesso.

Insomma, la storia di Froglia è ancora attuale.
Molto. A me è piaciuto anche raccontare il contesto sociale in cui Froglia ha vissuto: la provincia profonda, Livorno, un posto dove, per dire, il '68 è arrivato nel '72. È un elemento in più per far capire quanto fosse visionario. E poi c'è stata la coincidenza dei falsi Modigliani in una mostra in corso a Genova, a Palazzo Ducale, denunciati pochi giorni fa dal critico d'arte Carlo Pepi. Pepi è uno dei personaggi intervistati nel documentario, che è stato proiettato proprio nell'ambito della mostra in questione. Man mano che il tempo passa e la tecnologia evolve il problema delle riproducibilità dell'arte, lo stesso problema sottolineato da Froglia si fa sempre più vero e complesso. Allo stesso tempo il compito della critica si fa sempre più difficile e aumentano sempre di più di più le sue responsabilità. Nonostante la capacità di conoscere tutto, c'è anche la capacità di riprodurre.

https://www.vice.com/it/article/43yv5w/ ... so-magnano


e questo:

ANGELO FROGLIA : "L'OMBRA DI MODI'
" la beffa che fece tremare il mondo dell'arte
....la burla delle sculture nei Fossi che 25 anni fa fece il giro del mondo. La legenda delle statue gettate via nel fosso di Livorno.

Il tutto ebbe inizio l'estate del 1909. Mentre il Manifesto Futurista parte dall'Italia alla volta di Parigi, qualcun altro lascia la Ville Lumière per tornare verso sud e il sole del Tirreno.
Ha venticinque anni, si chiama Amedeo Modigliani , un uomo che ha "tutte le carte in regola per essere un artista", dato che, oltre al talento, ha anche "un carattere malinconico" .
Modigliani in tale periodo è suggestionato dall'arte primitiva africana, così torna a Livorno per scalpellare la pietra e per rimettersi. Perché Parigi è dura e fredda, gli atelier dei giovani artisti spesso sono stamberghe orride e sporche.
Quell'estate a Livorno, Modigliani scolpisce alcune teste in pietra e fin qui i fatti sono certi.

Secondo poi testimonianze contraddittorie, alcuni suoi amici gli consigliano però di buttarle nel fosso, tanto sono brutte. Secondo una delle leggende più nere dell'arte novecentesca, Modigliani le carica nottetempo su un carretto e le scaglia nel Fosso Reale, vicino al Mercato delle Vettovaglie.

È lì che nell'estate del 1984 si immergerà a cercarle una benna, in coincidenza con una mostra che celebra il centenario della nascita di Modì e la sua attività di scultore. Una coincidenza che si rivelerà a dir poco sciagurata. In molti, anzi troppi, in quell'estate si mettono a giocare con il fuoco. Quel fuoco si chiama Modì. Che non è solo l'abbreviazione di Modigliani. È anche la pronuncia di maudit. Maledetto. "Autenticare un Modigliani è come puntare a Las Vegas". A dirlo è un anonimo mercante d'arte italiano intervistato sul sito Forbes.com. Voci sostengono che almeno tre opere su quattro attribuite a Amedeo Modigliani siano in realtà dei falsi.

Sempre si legge: Il primo a fare i soldi con il successo postumo di Modigliani si chiama Leopold Zborowski, amico, mecenate e mercante d'arte del pittore. Secondo qualcuno, fa anche terminare ad altri pittori abbozzi e schizzi di Modigliani. Comunque sia, è una fortuna che dura poco: Zborowski perde tutto nella Grande Depressione e muore in miseria nel 1932. Per campare, la sua vedova non trova allora di meglio che attestare l'autenticità di molti disegni senza grandi scrupoli. Un'altra amica e modella di Modigliani, Lunia Czechowska, fa lo stesso. Nel dopoguerra ci si mette anche un certo Elmyr De Hory. Il nome non vi dirà niente ma, quando si ammazza imbottendosi di sonniferi a Ibiza, nel 1976, questo signore è una celebrità. Elmyr De Hory è uno dei più grandi falsari del Novecento, tanto che alla sua biografia Orson Welles ha dedicato F for Fake (F come falso). Per vent'anni, De Hory ha praticamente impestato il mercato.

Il corpus delle sue opere è numericamente ristretto. Picasso ha lasciato circa cinquantamila disegni, Modigliani poco più di novecento, che oggi possono valere dai cinquantamila ai centomila euro. Modigliani disegnava all’impronta, al bistrot per pagarsi da bere.

La beffa delle false teste del 1984 si inserisce quindi in un labirinto internazionale di sospetti, segreti, interessi e rivalità. Lo ha capito bene già nel 1976 un certo Zachary Stone che a Londra pubblica un thriller intitolato “The Modigliani Scandal”. Al centro c’è un’opera sconosciuta del pittore livornese, che scatena una lotta senza esclusione di colpi fra un giovane studioso, un collezionista e un gallerista. A parte la curiosa coincidenza del cognome (Stone significa pietra), anche quella firma è a suo modo un falso. Zachary Stone infatti non esiste, è lo pseudonimo di un giovane scrittore alle prime armi di nome Ken Follett

La mostra su Modigliani scultore, la prima che Livorno dedica al “suo” grande artista, apre nel centesimo compleanno dell’artista. A curarla ci sono i fratelli Durbé. Vera è direttrice del Museo Progressivo d’Arte Contemporanea di Villa Maria, con il fratello Dario, direttore della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.

LA PRIMA GRANA

La prima grana scoppia subito: Vera Durbé e la figlia di Modigliani sono protagoniste di una querelle su un “Ritratto di Picasso” esposto a Livorno che, scrive Jeanne Modigliani da Parigi, non appare “in nessuna edizione attendibile”. E in più lamenta di essere stata esclusa dal Comitato Scientifico della mostra, pur avendo dato la sua collaborazione ai curatori.
Poche le sculture, pochi i quadri e disegni, pochi i visitatori: la grande occasione di Livorno langue, la calda estate spinge le folle verso scogli, spiagge e bagni. Forse anche per questo Vera Durbé torna alla carica con la leggenda del 1909. È, a dire il vero, il suo pallino da qualche anno, ma intuisce che ora, o mai più, ci sono le condizioni per cercare le famose teste buttate da Modì. In tempi relativamente brevi si trovano quaranta milioni di lire, si appronta una benna speciale, si ottengono i permessi, si superano le perplessità dei vari “enti preposti” che devono dire la loro o apporre un timbro su un’operazione del genere.

L’ESCAVATRICE

Il 16 luglio l’escavatrice caricata su una grossa chiatta inizia a rimestare il fondo del Fosso Reale: e quello ancora più torbido della leggenda. Si ridesta immediatamente l’interesse dei media.
Ci sono più curiosi sulle spallette davanti al Mercato che visitatori alla mostra di Villa Maria. Passa una settimana di lavoro estenuante in cui viene su di tutto, dalle biciclette alle pistole, ma non le famose sculture. Il 24 luglio potrebbe essere uno degli ultimi giorni di lavoro, se la melma del Fosso Reale non restituisse, alle 9 di mattina, una pietra che reca segni di lavorazione. Una volta lavata e ripulita, ne emerge il profilo rudimentale di un volto che richiama una maschera primitiva. Anche senza internet e senza cellulari, la notizia dilaga per tutta la città in pochi minuti. I giornalisti, che ovviamente avevano un po’ mollato, tornano di corsa sul posto. Lo scetticismo viene subito messo sotto pressione. C’è chi vive il momento come una promozione collettiva dall’anonimato della provincia, c’è chi tira un sospiro di sollievo.

TRE AMICI

Piefrancesco Ferrucci, Pietro Luridiana e Michele Ghelarducci non partecipano a niente di tutto questo. Sono tre amici, studenti universitari figli della Livorno bene, che in un paio di serate si sono divertiti con un Black & Decker e un piccolo blocco di arenaria a preparare una di quelle teste che tutti cercano. L’hanno buttata di notte davanti alla benna e la mattina del 24 luglio pensano solo di “guardare di nascosto l’effetto che fa” prima che tutti si accorgano della bufala. Peccato la pietra scolpita ripescata non sia la loro. La burla si complica. Alle quattro del pomeriggio la benna recupera comunque anche la loro opera. Entrambe vengono magnificate da Vera Durbé: “La prima è più bella, nobilissimo il naso, la seconda sembra un dipinto...“
I media di tutta Italia si gettano sulla notizia. Per trovare un po’ di scetticismo bisogna allontanarsi da Livorno e dall’Italia. A Parigi, Jeanne Modigliani è infatti stata avvertita da lettere anonime che a Livorno stanno per essere ritrovate due false teste. Di chi, non si è mai appurato. Jeanne Modigliani tace su quelle lettere e rilascia dichiarazioni molto caute. Alla fine decide di partire per Livorno per capire meglio cosa sta succedendo. Il 27 viene trovata priva di sensi ai piedi delle scale del suo appartamento. Morirà dopo alcune ore in ospedale. Una caduta accidentale e un trauma cranico letale, concludono le autorità francesi.

Dalle cronache :
per dare un’idea del clima del momento, quel giorno stesso a Livorno il sindaco emette un’ordinanza apposita per evitare che le teste siano trasferite nella rivale Pisa. Che siano gli esperti della Soprintendenza, a muoversi, per analizzarle.
Si finanzia inoltre il proseguimento delle ricerche, che il 9 agosto pesca dal Fosso Reale una terza scultura. Intanto arriva il momento anche dei superlaureati. Per quanto riguarda lo stato delle due pietre, docenti universitari , interpretano analisi e dati con un tortuoso “nulla emerge che sia contrario all’ipotesi che giacciano sul fondo dal 1909”.
Altri, pur parlando di “tracce di scalpelli inusualmente larghi” e osservazioni varie, concludono che “il processo esecutivo appare quello tipico di Modì”.
E così altri scultori famosi dell'epoca , messi di fronte alle teste, riconoscono “in esse la mano di un artista che non padroneggia ancora l’appropriato uso degli strumenti”.
Hanno ragione da vendere, eppure non dubitano che la mano inesperta possa anche non essere quella di Modigliani.
Per Dario Durbé, anzi, è la mano di Modì a rivelare “una commovente e indagante incertezza” . Sta in queste parole la beffa più autentica, l’inganno più crudele, perché è l’inganno di chi, pur essendo capace di ricavare dati corretti, li stravolge e vi vede ciò che desidera vedere, che tutti desiderano vedere. Innescando così le estasi intellettuali di critici come Argan e altri. Le tre teste ritrovate vengono così esposte alla mostra di Villa Maria, che finalmente vede arrivare visitatori a frotte, da tutta Italia. Si appronta un catalogo apposito, che viene presentato domenica 2 settembre.


SCOOP

“Panorama”, in edicola il lunedì, anticipa il suo scoop da copertina: tre studenti hanno rivelato al settimanale di essere gli autori di almeno una testa, quella definita “Modì 2”.

Sempre dalle cronache:
scoppia il putiferio, ma Vera Durbè liquida il tutto come uno scherzo, mentre Enzo Pagliani, restauratore capo della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, si schiera in prima linea: “Non nutro alcun dubbio sull’autenticità delle teste”. Di lì a pochi giorni Dario Durbè parlerà di un oscuro complotto.
Altri insinuano che il tutto sia stato architettato per scalfire il vero monolite granitico di questa storia, la Giunta comunale di Livorno. Argan resiste, ma dà l’idea di prepararsi una qualche ritirata, affermando che quelle pietre, certo “non sono capolavori”. Verso le tre del pomeriggio del 7 settembre a Modì 2 vengono messi i sigilli dall’ufficiale giudiziario in attesa di essere trasferita due giorni più tardi nel caveau della Banca d’Italia. La mostra livornese per il centenario di Modì finisce così con un acceso parapiglia . Ancora niente, rispetto a quello a cui tutta Italia sta per assistere: il 10 settembre Ferrucci, Luridiana e Ghelarducci vanno su Raiuno e in poco tempo scolpiscono in diretta una replica di Modì 2. Esibiscono anche le prove fotografiche di quella che da burla è diventata un vero e proprio affaire. A Livorno missini e socialisti infatti partono all’attacco del sindaco e della Giunta. Non potrebbe andare peggio, pare, e invece non è ancora finita: il 13 settembre esce allo scoperto l’autore ,Angelo Froglia, delle altre due teste, la 1 e la 3.

E' un giovane portuale con una storia tormentata, il volto da angelo caduto del rock e un talento artistico non banale. Froglia possiede anche un video della creazione delle teste, che nei suoi progetti doveva essere esso stesso un’opera artistica concettuale e provocatoria. Lo mostra il 15 settembre, in una saletta di una pizzeria dell’Ardenza stipata all’inverosimile di giornalisti. Il pateracchio è davvero completo, tutto il mondo parla del caso e qualcuno a Livorno commenta amaramente: “dalla gloria internazionale siamo alla derisione intercontinentale”. Dopo la beffa del 1984 il clima intorno alle opere di Modigliani non poteva certo migliorare.


https://angelofrogliacollezioni.weebly. ... toria.html


e questo:

Un film racconta Angelo Froglia, l’artista dell’inganno
In tempo di fake news, il regista torinese Tommaso Magnano aiuta a far luce sul confine tra vero e falso attraverso la storia dello scultore delle false teste di Modigliani


Genova, 2017. Durante una mostra dedicata ad Amedeo Modigliani, una ventina di opere esposte sono denunciate come false. A qualche isolato di distanza viene proiettato un documentario che rievoca la cosiddetta “beffa di Modigliani”, un clamoroso falso artistico risalente alla metà degli anni Ottanta e proprio uno dei responsabili, l’artista livornese Angelo Froglia (1955-1997), è il protagonista del lungometraggio in questione, intitolato L’inganno dell’arte.
Per saperne di più sull’episodio livornese, su Froglia e sul documentario a lui dedicato, abbiamo parlato con il giovane autore del film, il regista torinese Tommaso Magnano, classe 1982.

UN URLO DI LIBERTÀ
«Parlando di Angelo Froglia è difficile distinguere fra l’arte e la vita – sostiene – poiché lui fece di tutto affinché l’intera sua esistenza somigliasse a un’opera d’arte». Una vita piuttosto turbolenta, vissuta costantemente sul confine fra genio e follia, e un’attività artistica troppo spesso dimenticata, come lo è stato il suo autore: emarginato in vita a causa della sua condotta privata giudicata scandalosa e tutt’oggi, vent’anni dopo la sua morte, recluso nel dimenticatoio.
Le rare volte in cui ci si è ricordati di lui, lo si è descritto come uno sbandato, un tossicodipendente con il passatempo della pittura o, piuttosto, come un terrorista. Invece fu anzitutto un artista. Per raccontarci il Froglia dimenticato, il Magnano ha raccolto decine di scritti, dipinti e filmati costruendo un documentario con cui intende rendere giustizia a colui che ha definito «un urlo di libertà: violento, provocatorio, intransigente».

LA BEFFA DI LIVORNO
“In fondo dipingere è stata l’unica costante della mia vita. Insieme al vizio di produrre casini grossi come montagne”, ammise Froglia in un suo scritto. Uno di questi “casini”, in effetti, lo combinò nella sua città natale, Livorno.
È il 1984: in occasione del centenario della nascita di Modigliani, il Comune dà ordine di scandagliare il canale della città alla ricerca di alcune teste scolpite da Modì e presumibilmente lì gettate dall’artista. Froglia decide di sfruttare questa leggenda: scolpisce due grosse teste somiglianti agli originali, le abbandona nel canale e aspetta: il suo piano è quello di attendere circa 30 anni dopo il ritrovamento, poi rompere il silenzio e svelare l’inganno.
Il piano sembra funzionare, ma sorge un imprevisto: le sculture che emergono dal fango, infatti, non sono due ma tre; gli autori della terza testa sono tre studenti universitari complici di uno scherzo sfuggito di mano. La critica non sospetta nulla e le riconosce come opere autentiche fino a quando, però, la verità viene a galla: platealmente ingannati, critici e media preferiscono far passare la beffa come opera di tre ragazzini piuttosto che riconoscere la performance di un artista. «Froglia non voleva fare uno scherzo – chiarisce Magnano – ma evidenziare il delicatissimo ruolo svolto dai mass media e denunciare alcune logiche interne al mondo dell’arte». Un artista estremamente attuale, dunque, capace di fare dell’arte un inganno e dell’inganno un’arte.

FRA CLOWN E MERCENARI
Angelo Froglia non è l’unico al quale Magnano ha dedicato la propria attenzione cinematografica.
L’inganno dell’arte infatti è il terzo di una serie di documentari biografici su alcuni personaggi ribelli: il primo film della serie è stato Fool of Life (2014), un film dedicato al bizzarro mondo dei clown, mentre il secondo s’intitola Red Devil. Il Mercenario (2016) incentrato sulla tremenda storia del mercenario Roberto Delle Fave. «Mi hanno sempre affascinato le persone borderline – ci spiega Magnano – guardare la realtà attraverso i loro occhi aiuta a vedere le cose da una prospettiva insolita e originale».


http://www.digi.to.it/2018/10/16/un-fil ... llinganno/


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ATEK
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Re: Personaggi di oggi e di ieri

Messaggio da ATEK »

Bravo Piazza.Ho conosciuto personalmente Angelo nel periodo in cui lavorava al porto.Devo dirti una cosa,di primo acchito sembrava che mi volesse evitare,era schivo,sospettoso.Ma in pochissimo tempo cambio tutto.Siccome io lavoravo in ufficio,mi considerava come dire......uno che si dava importanza insomma un superiore.Niente di piu' falso.Infatti senza far niente venne nel mio ufficio,lo salutai e lui con un gran sorriso ricambio'.Sapevo che si "faceva" non mi sono mai permesso di chiedergli qualunque cosa sulla sua vita privata e la sua scelta di vivere.Era un ottimo ragazzo .Si parlava di molte cose.La sua voglia di disegnare era incredibile.Purtroppo si è rovinato da solo.Un saluto Angelo,sono sicuro che dove sei adesso continui a disegnare cose bellissime.
Essere se stessi in un mondo che cerca continuamente di cambiarti è la più grande delle conquiste.

Ralph Waldo Emerson
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piazza
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Re: Personaggi di oggi e di ieri

Messaggio da piazza »

NADA

giusto stasera c'era il film TV su di lei su RAI 1:

LIVORNO. Era “campagna”, quella vera con i contadini e un pugno di case, il Gabbro degli anni ’’50. Il Gabbro, paese sulle colline a sud di Livorno da dove la corriera arrivava presto la mattina, arrivavano le uova fresche e le gabbrigiane, contadine alle quali è persino dedicato un salone del maestoso Mercato Centrale. E al Gabbro, “ricostruito” sul set prevalentemente toscano cresce Nada, “La bambina che non voleva cantare” (è il titolo della bio-fiction che Raiuno le dedica stasera, prima serata).

Perché Nada Malanima da ragazzina davvero non voleva cantare e voleva tenersi stretta quella voce speciale. Non voleva cantare senza sapere che avrebbe cantato e rivoluzionato il mondo della musica, scelte d’autore e di coraggio, senza mai fermarsi, lontano da tutti i cliché, passo dopo passo via le zavorre delle musica solo leggera e una ricerca autorale fatta di studio, fatica, sfide.

Parte quindi da quelle distese verdi del Gabbro, e va raccontata proprio da qui, come fa la bio-fiction della regista Costanza Quatriglio, la lunghissima carriera di Nada: e che emozione vederla già bambina con quella voce che fa tremare i muri e la sua bella mamma geniale e fragile come tutte le donne geniali. La mamma che ci crede, Nada che recalcitra e comincia così la storia da fiaba senza fronzoli di questa ragazza che alla fine piace sempre ricordare, anche ora che è donna adulta e volitiva, come “il pulcino del Gabbro” (così la chiamavano “i critici” contrapponendola alla re di Cremona Mina o alla pantera di Goro Milva). Pulcino, ragazzina, con gli stivali e la minigonna che canta nel bianco e nero di Sanremo “Ma che freddo fa” ed è già lì, in quella grinta la sua avventura. Avventura che lei racconta nel bel libro “Il mio cuore umano” dal quale la regista Quatriglio ha tratto il film, senza tradirne appunto il cuore. Asciutto, realistico eppur commovente è quindi questo “La bambina che non voleva cantare”, e non è un caso: «La regista mi conosce bene, quasi come una sorella, ha fatto proprio il lavoro che mi aspettavo: è stata delicata, si è soffermata sui sentimenti, ha colto le emozioni» dice Nada.

Il libro, un’autobiografia che si legge come un romanzo, racconta molto di più «ma credo ne abbia tratta una buona sintesi» dice ancora l’artista. Corre quindi veloce, dall’infanzia alla maturità, attraversando i verdi pascoli dell’infanzia e i primi colori dell’adolescenza, “La bambina che non voleva cantare”. Se la piccola Nada ha il volto di Giulietta Rebeggiani, l’artista adolescente è interpretata dalla giovane attrice e cantante Tecla Insolia: «Il racconto della protagonista è molto travagliato ma anche leggero, stiamo pur sempre parlando di una bambina e di un’adolescente cresciuta negli anni ’60. Nada inizia a cantare perché pensava che fosse una cura per la malattia della madre, la donna che ama di più, ma ha un rapporto difficile con la musica, perché non capisce se è quello che vuole fare o se lo sta facendo solo per la mamma. E nel percorso del film comprende che è un mezzo per esprimere la sua rabbia e tutto quello che ha dentro».

Carolina Crescentini è Viviana la madre di Nada «convinta - spiega l’attrice - che il talento di Nada sia il passaporto per la libertà di quella ragazzina, ciò che le permetterà di vivere una vita diversa della sua e da quella di sua nonna». Tra i personaggi più importanti del film c’è anche Paolo Calabresi, il maestro di musica Leonildo: «Ho amato da subito il progetto, perché non c’è la celebrazione della grande cantante che è Nada, ma si concentra tutto sull’interiorità, mai sull’esteriorità».


LINK: https://iltirreno.gelocal.it/tempo-libe ... anni%20'60.




Nada, perché si chiama così: la predizione della zingara veggente
By Alessandra D'Ancona -10 Marzo 2021
Nada è un nome davvero particolare per una ragazzina, anche negli anni ’50. Cosa avrà spinto la madre della famosa cantante a sceglierlo?

Nada Malanima, conosciuta solo come Nada, è una cantante, attrice e scrittrice nata nel 1953 a Gabbro, in provincia di Livorno. Questa sera, 10 marzo, andrà in onda su Rai 1 La bambina che non voleva cantare: un film che racconta la vita dell’artista all’inizio della sua carriera. La donna, tra le altre cose, è figlia d’arte in quanto il padre, Gino Malanima, era clarinettista. Il film mostrerà la sua vita prima della notorietà e il debutto al Festival di Sanremo, avvenuto quando Nada aveva solo quindici anni nel 1969, portando la canzone Ma che freddo fa. La partecipazione al Festival della Canzone Italiana è stato il trampolino di lancio per carriera di un’artista che si è rivelata, nel corso degli anni, poliedrica e capace di rinnovarsi a seconda del periodo. Ma, nonostante la notorietà, rimane una curiosità: come mai i suoi genitori hanno optato per un nome così inusuale?

Perché Nada?
La storia che si nasconde dietro al nome della famosa cantante di Gabbro è davvero curiosa. Infatti, era stata la madre a decidere di chiamare la propria figlia Nada, dopo aver sentito la predizione di una zingara. Viviana Fenzi, questo è il nome della mamma di Nada, si era fatta leggere le mani da un’indovina zingara che, in seguito a questa lettura, aveva predetto un futuro fortunato per la figlia. L’indovina aveva letto che la Fenzi non solo avrebbe avuto una figlia femmina, ma quest’ultima avrebbe vissuto una vita piena di successi, intraprendendo anche tantissimi viaggi. Fu la stessa cantante a rivelare questo particolare in un’intervista del 2017 per Repubblica. La cantante, alla domanda sulle ragioni del suo nome, disse: “Mia madre mi raccontò che una zingara leggendole la mano disse che avrebbe avuto una bambina che avrebbe viaggiato e avuto successo. Il nome della zingara era Nada. Per questo mi chiamò così. Non so se la storia sia vera. Mi piace pensarlo”.

LINK: https://www.viagginews.com/2021/03/10/n ... -veggente/




Nada, «La bambina che non voleva cantare», la sua storia diventa un film: il libro, le origini del nome e altre 8 curiosità su di lei

LINK: https://www.corriere.it/spettacoli/card ... pale.shtml






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Re: Personaggi di oggi e di ieri

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GLI SCARRONZONI



In principio quel nome, gli Scarronzoni, non prometteva niente di buono. E non lasciava certo presagire quel che sarebbe potuta essere poi la loro storia agonistica, soprattutto in sede olimpica.

Nel giugno 1928, ai campionati toscani al lago di Massaciuccoli, nel lucchese, l’otto dell’Unione Canottieri Livornesi composto da Enrico Garzelli, Dino Barsotti, Guglielmo Del Bimbo, Mario Del Bimbo, Vittorio Cioni, Renato Tognaccini, Enzo Favilla, Eugenio Nenci e il timoniere Mario Ghiozzi, dà sfoggio di ben poca eleganza ed estetica del gesto tecnico, abituato com’è alla pratica dell’esercizio a remi su imbarcazioni a sedile fisso. Usando un termine che si usa in marina, l’armo livornese scarroccia, che significa deviare lateralmente dalla rotta per azione del vento, e chi è presente all’evento, a bordo lago, conia appunto il termine che diverrà nel tempo un marchio di fabbrica. Fortunatamente vincente, perchè già quel titolo locale è loro, forti e brutali nel remare come sono e inavvicinabili agli avversari di turno, e già all’abbrivio la loro leggenda comincia a scriversi.

Gli Scarronzoni nascono qui, non lontano da casa, allenati da Carlo Mazzoni che forgia un gruppo destinto a far man bassa di successi. Si comincia agli Europei del 1929, a Bydgoszcz in Polonia, dove Mario Balleri, Renato Barbieri, Dino Barsotti, Guglielmo Del Bimbo, Vittorio Cioni, Eugenio Nenci, Enrico Garzelli, Roberto Vestrini e il timoniere Cesare Milani, che ha preso il posto di Ghiozzi, conquistano la medaglia d’oro battendo Jugoslavia e Polonia, per proseguire l’anno dopo, a Liegi, quando l’armo italiano è costretto ad accontentarsi del secondo posto alle spalle della Francia, così come nel 1931, quando Renato Bracci ha preso il posto di Roberto Vestrini ed ancora una volta i transalpini hanno la meglio.

Nel frattempo Mario Ghiozzi, livornese doc, è sceso dall’armo e ha preso il posto di Mazzoni in cabina di comando e darà l’impronta tecnica all’otto che da quel giorno diventerà un modello di compostezza e stile, diventando di fatto l’esempio da seguire per il futuro del canottaggio tricolore.

Ma se il campo di regata ha già premiato l’equipaggio labronico, c’è un altro risultato che sta a cuore a Ghiozzi e ai suoi ragazzi. Già, perchè in piena era fascista, in cui tutto ciò che viene da Livorno è deprecabile perchè ha chiara matrice comunista, gli Scarronzoni se vincono non sono certo popolari, anzi. Ed allora è necessaria la vetrina a cinque cerchi per guadagnarsi la stima e l’applauso di un’Italia che ha virato verso il regime. Los Angeles 1932, dunque, cade a fagiolo.

L’imbarcazione italiana si presenta alla kermesse californiana, dunque, con tre medaglie europee già al collo. Ma laggiù, oltreoceano, c’è da affrontare l’armo americano, ovvero quello dell’Università della California, Berkeley, e i britannici del Leander Club, che nel 1929 e nello stesso anno 1932 si sono imposti alla Henley Royal Regatta. Insomma, la concorrenza è agguerrita e per gli Scarronzoni l’impegno, oltrechè probante, è decisamente arduo.

Al Long Beach Marine Stadium, il 10 agosto, i livornesi gareggiano in prima batteria, battendo proprio i britannici e fermando il cronometro al miglior tempo, 6’28″2. L’onore dei sudditi di Sua Maestà è leso, al punto da dover passare per le forche caudine dei ripescaggi per guadagnare la finale, a cui accedono di diritto gli americani che nella seconda serie hanno la meglio del Canada con il tempo di 6’29″0. Gran Bretagna e nordamericani superano rispettivamente Nuova Zelanda e Brasile (che non si presenta) gli uni, Germania e Giappone gli altri e i quattro equipaggi, il 13 agosto, scendono in acqua per la sfida decisiva.

E qui si fa la storia. Gli Scarronzoni, determinati, forti e con quello spirito battagliero che è proprio dei suoi componenti, di umili origine e che la vita obbliga alla fatica quotidiana per guadagnarsi la pagnotta, passano in testa a metà gara, con gli americani alle costole e canadesi e britannici leggermente staccati che librano tra loro la lotta per la medaglia di bronzo. Il testa a testa tra italiani e universitari californiani è eccitante, gli statunitensi sorpassano, ai 300 metri dal traguardo i livornesi sono di nuovo al comando, infine sulla linea d’arrivo sono gli americani a metter la prua davanti, per l’inezia di 2 decimi, 6’37″6 contro 6’37″8. Gli Scarronzoni sono d’argento e la gloria, almeno quella olimpica, è conquistata.

Passano quattro anni e gli Scarronzoni, reduci dall’ennesimo secondo posto agli Europei di Budapest del 1933 (vinceranno l’oro ad Amsterdam nel 1937 e il bronzo a Milano nel 1938, per un totale di sei metalli continentali), si presentano all’appuntamento con le Olimpiadi di Berlino del 1936 dove si rinnova il duello tra l’otto americano e quello livornese.

Si gareggia nel lago di Grunau, e i quattordici equipaggi iscritti alla gara entrano in lizza nelle tre batterie che promuovono direttamente alla finale gli Stati Uniti, rappresentati dall’equipaggio dell’Università di Washington, grandi favoriti, che segnano in 6’00″8 il miglior tempo, l’Ungheria, campione d’Europa, e la Svizzera. L’armo italiano è secondo alle spalle dei magiari ed è costretto a passare per i recuperi, dove prevale facilmente su Giappone, Jugoslavia e Brasile accedendo così all’atto finale, insieme alla Germania padrona di casa e alla Gran Bretagna. Rispetto a quattro anni prima sono rimasti Guglielmo Del Bimbo, Dino Barsotti, Enrico Garzelli e il timoniere Cesare Milani, mentre sono nuove reclute Oreste Grossi, Enzo Bartolini, Mario Checcacci, Dante Secchi e Ottorino Quaglierini. Ma la competitività dell’Italia è garantita comunque.

La finale si disputa il 14 agosto ed è appassionante. La Germania, che vuol vincere la medaglia d’oro per compiacere i gerarchi nazisti presenti all’evento, Hitler compreso, parte a spron battuto seguita dalla Svizzera. Gli Stati Uniti remano in fondo, in sesta posizione, con l’Italia che segue i due armi al comando della gara, per scavalcarli entrambi e balzare in testa. L’eccitazione è massima in tribuna, il pubblico incita la Germania (che domina le gare di canottaggio vincendo 5 delle 7 regate in programma e cogliendo inoltre un argento e un bronzo) ma sono gli Stati Uniti ad operare una clamorosa rimonta che li porta davanti ai 1.800 metri. L’arrivo è proprio al fotofinish, Stati Uniti, Italia e Germania piombano appaiate sul traguardo e il responso cronometrico premia infine gli americani, che col tempo di 6’25″4 bissano il successo di Los Angeles, con l’Italia come allora ancora una volta seconda, staccata di soli 6 decimi, altri 4 decimi davanti alla Germania che sale sul terzo gradino del podio.

Gli otto uomini d’argento del canottaggio italiano possono tornare a casa, soddisfatti seppur battuti: la loro leggenda è destinata a tramandarsi ai posteri ed oggi, quando si citano gli Scarronzoni, si ricordano quei ragazzi che sconfissero le ideologie di partito e diventarono degli eroi.


Link: https://sport660.wordpress.com/2017/07/ ... -dargento/
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Re: Personaggi di oggi e di ieri

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DON NATALE

allora...come promesso a Ateo, voglio scrive di un personaggio che ricordo con grande affetto: Don Natale.
chi ha bazzicato Piazza Magenta soprattutto negli anni 80, sa che non era proprio semplice crescere lì, per il fenomeno eroina che era al massimo in quegli anni, tanto che il centro della piazza era ritrovo abituale dei tossici e c'era poco spazio per i ragazzetti della mia età e anche per quelli un po' più grandi.
però c'era Don Natale, che apriva una sorta di oratorio alla bona, sul retro della chiesa del soccorso e alle 15 ci si metteva tutti lì sotto ar portone aspettando che aprisse per andà a gioà a pallone in un simil gabbione dei poveri, oppure a biliardo o ad altri giochi che oggi se ci metti un bimbetto di dieci anni, ti vomita addosso.
c'erano i chicchi di Don Natale (le cocacoline, i moscioni, le mentine, le liquirizie) i vari sciroppi menta, amarena, orzata, d'estate i ghiaccioli...tutta roba da tre palle e un soldo ma a noi ci garbava così, anche in condizioni igieniche precarie, ci importava una sega, tanto s'era bimbetti.
il bello era che Don Natale però un era uno di vei preti tutto moine e sorrisi...era sempre cor cazzo girato, se facevi le 'azzate ti rincorreva con la granata e se ti beccava ti prendeva per un orecchio e ti volava fòri.
però era l'unico che si spendeva per noi, che s'era veramente tanti...c'è passata tutta una generazione, quella degli anni 70, da lui, quando in diversi un c'avevano un cazzo nulla e alcuni erano anche ragazzi che c'avevano fratelli più grandi che erano in piazza a bu'assi.
vi basti sapè che quando ner '93 fu fatto il gruppo di Piazza Magenta allo stadio, tutti vei ragazzi che contribuirono a fà ir primo striscione che esordì a Rimini, erano passati da Don Natale e probabilmente in tanti, se oggi sono ancora vivi lo devono proprio a lui che l'ha tenuti lontani dai giri strani.
Don Natale è morto nel dicembre del 2000, lo vidi poco tempo prima, era estate, non stava bene ma era vestito come sempre, un c'aveva i vestiti da estate o da inverno...c'aveva le scarpe bu'ate.
solo dopo ho scoperto che era stato in India come missionario.
solo dopo ho scoperto che il su' vero nome era Libero.
ciao Libero, ovunque tu sia.
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Re: Personaggi di oggi e di ieri

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Che bel messaggio, Piazza! Quanta gente opera in modo straordinario per fare il bene degli altri, senza nulla chiedere se non, forse, quello di stare bene dentro di sé e di contribuire, nel suo piccolo, a un mondo migliore. Si può essere di sinistra anche con una tonaca e forse Libero lo era più di tanti di noi.
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Re: Personaggi di oggi e di ieri

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Il nome LIBERO è una garanzia
C'è ne vorrebbero tante di "PERSONE" così.. ma purtroppo :roll:
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spiritual
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Re: Personaggi di oggi e di ieri

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Ho scritto un messaggio proprio ora nel topic dedicato a Battiato e il significato vale anche per Libero.
Certe persone vivono sempre nella memoria della gente che le RICORDA CON PIACERE E AFFETTO.
Questo vale per chi ha SPESO QUALCOSA DELLA SUA VITA a favore DEGLI ALTRI, del BENE COMUNE, o comunque HA ESPRESSO VALORI POSITIVI.
Qualche volta il nome è famoso e viene ricordato da tanti, altre volte è meno noto, come Libero, e viene ricordato dalla piccola comunità nella quale viveva. Altre volte ancora il ricordo resta nell'ambito familiare o poco allargato allo stesso.
Ma questa differenza non conta niente, è relativa alla carriera, alla vita più o meno sociale delle persone in oggetto. Quello che conta è che quei valori espressi in un ambito grande o piccolo non muoiono mai E RESTANO COME ESEMPIO A COLORO CHE LI HANNO CONOSCIUTI.
Vale per pochi, è vero. Per tanti avviene il contrario: ci si scorda presto e volentieri di ciò che hanno espresso.
Vale per pochi, ma anche questo è un modo per cambiare il mondo e non importa della grandezza dell'ambito.
Io ci credo.
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