Figlio di un dipendente dell'azienda elettrica, crebbe nel quartiere Vanchiglietta di Torino dove, in giovane età, si avvicinò all'impegno sociale col Gruppo Emmaus e con Mani Tese, che definisce «gruppi cattolici del dissenso». Lasciata l'associazione, nel 1968 si iscrisse alla facoltà di scienze politiche, che però abbandonò dopo un anno per lavorare allo stabilimento Mirafiori della FIAT.
Successivamente svolse l'attività di calciatore a tempo pieno, senza però rinunciare all'impegno politico: «la critica principale che mi è stata rivolta [è come si conciliava la mia militanza a sinistra con i guadagni da calciatore, ndr], ma il mio era lo stipendio di un buon impiegato. Se mi sentivo un privilegiato era per un altro motivo, perché facevo il lavoro dei miei sogni, il calciatore. Una fortuna che capita a pochi».
La sua notorietà è dovuta principalmente al libro Calci e sputi e colpi di testa, pubblicato nel 1976, nel quale il calciatore racconta la propria militanza in Avanguardia operaia e descrive il mondo del calcio da un punto di vista alternativo rispetto ai colleghi:[3][4] nell'occasione venne deferito dalla FIGC. Diventa emblematico il suo saluto col pugno chiuso rivolto ai tifosi del Perugia, un gesto che gli provoca l'antipatia delle curve di stampo neofascista,[3] in particolar modo quella della Lazio;[2] ebbe a ricordare anni dopo: «non era propaganda. Non era un gesto indirizzato ai tifosi ma a me stesso, per ricordarmi ogni volta chi fossi e da dove venivo. E per far sapere ai miei amici che restavo quello di sempre. Il ragazzo che al campetto, tanti anni prima, così si rivolgeva a loro. Con quello che per noi era un segno di riconoscimento».
Dopo il ritiro dall'attività agonistica, collabora con quotidiani e riviste, tra cui Reporter, Il Mattino di Padova, Tuttosport e MicroMega. Allena per qualche anno squadre di categorie inferiori e nel 2008 pubblica il libro Spogliatoio, scritto a quattro mani con Paolo La Bua, ed esce la riedizione di Calci e sputi e colpi di testa, completata da articoli dell'epoca e recensioni.
Link: https://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Sollier
Paolo Sollier: il trequartista militante
«Giocare a calcio o leggere i quotidiani sportivi era una cosa da cazzari. Peccato, perché alla fine il Sessantotto nel calcio è stato solo una questione di look»
Avanguardia operaia e avanguardia calcistica. Paolo Sollier è stato il calciatore che usava i pugni per salutare il pubblico. Bastarono quel gesto, l’appartenenza ad Avanguardia operaia, l’abbonamento al Quotidiano dei lavoratori, i capelli lunghi e la barba ribelle per diventare un’icona: del calciatore impegnato, ma soprattutto di se stesso.
Perché la verità che racconta Sollier, allenatore della Nazionale degli scrittori ed ex calciatore in pensione, è «che il Sessantotto neppure sfiorò il mondo del calcio. Nel 1969 lavorai otto mesi alla Fiat Mirafiori e in autunno andai a giocare in serie D con la Cossatese. Facevo l’operaio e il calciatore. Entrare negli spogliatoi, indossare maglia e scarpini, significava entrare in un altro mondo. Quello che stava accadendo nella vita di tutti i giorni, restava fuori. Poi mi rivestivo, salutavo tutti e tornavo nell’ altro mondo. E’ in questa situazione che ho vissuto e alla fine ci avevo fatto anche l’abitudine. Io avevo cominciato ad occuparmi del sociale nel mio quartiere, la Vanchiglia, in un’organizzazione cattolica che si chiama Mani Tese. La nostra attività era il volontariato. Crescendo mi sono avvicinato alla sinistra: potere operaio, avanguardia operaia, democrazia proletaria».
«Ho incontrato pochi calciatori con i quali si parlava di politica. A Perugia c’era Raffaeli, che veniva da una famiglia iscritta al partito comunista. Poi c’erano quelli che simpatizzavano per i gruppi dell’extra-sinistra come Blangero, Pagliari, Codogno, Ratti, Galasso, Montesi».
«Nel 1974 o nel 1975, non ricordo bene, organizzammo un paio di riunioni per provare a creare qualcosa di nuovo, ma alla fine ci guardammo in faccia e dicemmo: ma che stiamo facendo? Dei grandi calciatori di quell’epoca, solo Gianni Rivera mostrò un’apertura e un interesse a quanto stava accadendo: la sua attività post calcio è la conferma che avesse una buona testa. Degli altri, nessuna notizia».
Che cosa è stato allora il Sessantotto per il calcio? «Un’occasione persa. Era un mondo a parte, con i suoi privilegi da difendere e per questo era impermeabile alla realtà quotidiana. Ma anche la sinistra ha le sue colpe: a quei tempi considerava lo sport una cosa da qualunquisti, un momento di disimpegno. Giocare a calcio o leggere i quotidiani sportivi era una cosa da cazzari. Peccato, perché alla fine il Sessantotto nel calcio è stato solo una questione di look. Capelli lunghi, barba, baffi e maglietta fuori dai calzoncini. Tutto qui».
Sono passati 40 anni e si torna a parlare del Sessantotto:
«La cosa che mi dà più fastidio è il revisionismo di questi tempi, le teorie dei voltafaccia come Giuliano Ferrara. Sembra che il Sessantotto abbia generato solo quei mille cretini che presero le armi e spararono, dimenticando tutto il resto. E invece il Sessantotto ha contribuito al progresso sociale e civile dell’ Italia. Penso al femminismo, all’ecologia, ai movimenti per i diritti civili: tutto ciò nacque allora. Il fallimento, se di fallimento è corretto parlare, è che ci illudemmo che si potesse cambiare il mondo. Il mondo non è cambiato, però il Sessantotto lo ha migliorato».
«Il calcio di oggi? Non mi dispiace quello che si vede in campo, il resto m’infastidisce. Si è consegnato alle televisioni e la tv ha cambiato tutto, a cominciare dal rito della domenica. Preferivo il calcio dei miei tempi, quando si giocava tutti alla stessa ora. Meglio l’abbuffata che lo spezzatino. Tra i giocatori italiani scelgo Totti, il migliore in assoluto, e Pirlo, poi mi piace Ibrahimovic, anche se talvolta esagera nei personalismi. Zidane mi faceva impazzire, ma la stima è finita con la testata a Materazzi. Con chi scambiare due chiacchiere? Con Damiano Tommasi. Mi piacerebbe incontrarlo. Il resto è come ai miei tempi. Un muro di gomma».
Link: https://storiedicalcio.altervista.org/b ... visto.html
Resiliente da sempre: Paolo Sollier, il compagno centravanti
Compie oggi 74 anni Paolo Sollier, l’attaccante piemontese che in carriera non ha mai nascosto le sue idee politiche, diventando un simbolo con il suo pugno alzato. Per l’occasione vi raccontiamo la sua storia.
L’autografo non lo fece mai a nessuno, nemmeno a un bambino; era già un gesto politico, quel rifiuto programmatico. Perché secondo lui il calciatore non andava idolatrato, come già accadeva da tempo in un’Italia che, dopo la ricostruzione, aveva attraversato il boom economico, qualche riflesso della rivoluzione culturale e ora, metà anni settanta, si ritrovava nel bel mezzo di contrapposizioni dure, oltranziste, sempre violente nei toni e spesso negli atti.
Anni settanta, una tuta blu, una coscienza di classe acquisita attraverso l’esperienza nell’associazionismo, peraltro di matrice cattolica, le buone e sistematiche letture, la voglia di comprendere le storture della società, per poi poterle combattere, dopo averle denunciate. Al contempo, il borsone da calcio: accostamento eretico, elemento incongruo, tanto per il buon senso borghese quanto per il dogmatismo rigido della sinistra più oltranzista.
In mezzo a tutto questo si districava e per la verità si districa ancora il fisico compatto di Paolo Sollier, piemontese di Chiomonte, attaccante di rendimento, più che realizzatore, che oggi ha una barba meno folta e meno scura ma che continua a dire e pensare le stesse cose di cinquant’anni fa, più o meno, in un mondo così tanto differente, all’interno del quale l’età gli rende più facile praticare l’arte, se così possiamo chiamarla, della coerenza.
Forse non saremmo qui, a raccontare di lui, calciatore non memorabile, professionista dalla carriera dignitosa, se non avesse scelto di vivere nel modo che a lui è sembrato il più giusto, il più coerente con i principi che ha cercato di onorare. Che poi in un ambiente abituato ai cliché, come quello del calcio professionistico nell’Italia degli anni che venivano acquisendo una sfumatura color piombo, lui venisse percepito come un dissidente, una scheggia impazzita, un elemento non previsto dal “sistema” era persino scontato, oltre che inevitabile. Così dedito a perseguire il modo di vivere che più gli piaceva, non poteva permettersi il lusso di piacere anche al resto del mondo che frequentava.
Cinzano, Cossatese, Provercelli: le sue maglie fino al 1974: anni in cui, oltre alla divisa di gioco, aveva indossato anche la tuta da operaio, alla Fiat Mirafiori: scarpe bullonate, si diceva una volta, e coscienza di classe, si diceva sempre quella volta lì. Lui stesso seppe tenerle separate, come se fosse capace di sdoppiarsi, per frequentare due mondi così distanti.
Cominciò a salutare col pugno chiuso, all’ingresso in campo come dopo ognuno dei suoi gol non così numerosi; più per ricordarsi sempre chi era che per sfidare qualche banale cliché, sin da quando non era ancora approdato al professionismo.
Poi quel pugno trovò la ribalta di una promozione in Serie A e di un campionato di tutto riguardo, dal 1974 al 1976, con la maglia del Perugia più memorabile che si ricordi, quello allestito da Silvano Ramaccioni e guidato in panchina da Ilario Castagner. Non cambiò il saluto, si moltiplicarono i suoi significati, crebbe la sua portata simbolica. Eppure quel pugno era anche un guscio, per così dire, all’interno del quale Paolo Sollier voleva continuare a racchiudere la sua identità di uomo pensante, che sceglieva il proprio modo di rapportarsi al mondo e alla società in cui viveva; il tutto in un calcio in cui quasi tutti gli altri protagonisti sembravano programmati per non mettere mai il naso fuori del rettangolo di gioco. E anche come uomo di sinistra seppe avere vedute più ampie della maggior parte dei compagni, in questo caso non quelli di squadra ma quelli di Avanguardia operaia e degli altri movimenti radicali dell’epoca: a loro ha sempre rinfacciato la colpa di aver snobbato il calcio e lo sport in generale, declassandoli a terreno privilegiato del disimpegno e del qualunquismo.
Iconico, come dissidente, suo malgrado, soprattutto quando dopo l’approdo alla massima serie la ribalta dei media nazionali cominciò a considerarlo come l’insetto, rarissimo, da osservare attraverso la lente del microscopio. Per questo Paolo Frajese, durante una storica puntata de “La domenica sportiva” lo guardava come avrebbe guardato un marziano; per questo la Curva Nord della Lazio gli riservò lo striscione con la parola “Boia”, quella volta che il Perugia portò sul terreno dell’Olimpico dieci avversari e un nemico politico.
Rimini, Pro Vercelli, Biellese, Cossatese: il prosieguo della sua parabola da calciatore, dopo quel Perugia che sarebbe continuato a crescere, dopo di lui. Nel frattempo, un libro, uscito nel 1976, in cui lui, ancora più marziano per averlo scritto e, innanzitutto, pensato, racconta dal di dentro l’ambiente del calcio e, in controluce, una società in via di radicali cambiamenti: “Calci e sputi e colpi di testa”, dove la ridondanza delle congiunzioni sembra già preannunciare la ricchezza degli aneddoti scritti e descritti, peraltro in una prosa apprezzabile. Più di un giornalista accolse l’opera con fastidio, soprattutto quando si capì che Sollier sapeva scrivere meglio di parecchi professionisti della carta stampata. Tra loro, un paio di firme celebri ancora oggi, nonché ideologicamente incompatibili con l’autore.
Ha allenato in provincia, dopo aver smesso di giocare; non a grandi livelli ma sempre a modo suo, tra Piemonte e Lombardia. Guida la Nazionale degli scrittori, che nel nome omaggia Osvaldo Soriano; collabora con varie testate; nel 2008 ha scritto “Spogliatoio”, con Paolo La Bua.
“Le idee le lascio ai giovani, io mi nutro ancora di ideali” dice oggi di sé Paolo Sollier che, se giocasse ai nostri giorni, il pugno chiuso lo alzerebbe con ancora più gusto e maggiore convinzione.
Link: https://giocopulito.it/resiliente-sempr ... ntravanti/
se non l'avete letto vi consiglio vivamente il suo libro:

MAURIZIO MONTESI
Ideologicamente legato alle formazioni extraparlamentari di sinistra, Montesi è stato uno dei pochi calciatori a segnalarsi per impegno politico e per aver più volte espresso opinioni a giornali e settimanali, concernenti il mondo calcistico "dietro le quinte".
Nel 1978 rilascia un'intervista al quotidiano Lotta Continua nella quale accusa i dirigenti della squadra in cui militava, l'Avellino, di utilizzare il calcio a fini clientelari e i tifosi locali di non far niente per opporvisi.
Il giorno dell'omicidio del tifoso laziale Vincenzo Paparelli, in un derby Lazio-Roma del 28 ottobre 1979, Montesi, titolare della Lazio con la maglietta n.8, è tra coloro che ritengono di non dover scendere in campo, in una simile situazione. Poi viene convinto dalla maggioranza dei compagni di squadra che il suo gesto isolato non avrebbe potuto cambiare le cose.
In una seconda intervista al settimanale Panorama del 12 novembre 1979, Montesi accusa le società di calcio di sostenere i gruppi ultras con ingressi gratuiti allo stadio, pullman per le trasferte e finanziamenti; attacca la classe politica che avrebbe paura di inimicarsi il serbatoio elettorale dei tifosi e i magnati del calcio che, già allora, avrebbero trasformato uno sport popolare come il calcio in una macchina per far soldi e, pertanto, di non aver alcun interesse a fermare l'escalation della violenza.
Il 4 marzo 1980 rilascia un'altra intervista a la Repubblica nella quale rivela con qualche settimana di anticipo rispetto all'inchiesta giudiziaria quello che sarà definito lo scandalo del Totonero. Per tutta risposta, Montesi risulterà coinvolto in tale vicenda e squalificato per quattro mesi per omessa denuncia.
Link: https://it.wikipedia.org/wiki/Maurizio_Montesi
Maurizio Montesi: il calciatore scomparso
Questa è la storia Maurizio Montesi, nato a Roma il 26 luglio 1957 e cresciuto nelle giovanili della Lazio, all’ombra del boom di quella squadra indimenticabile che arrivò a vincere lo scudetto nel 1973-74, legata alle prodezze di Chinaglia e alla saggezza del compianto Maestrelli. Chiuso e di poche parole, ancorché modesto tecnicamente come calciatore di centrocampo, arrivò comunque grazie alla sua grinta di combattente ad essere aggregato ai titolari nella stagione 1976-77, senza peraltro poter mai esordire in A con la maglia biancazzurra in quella stagione.
Sono di quei giorni i suoi primi atteggiamenti insofferenti nei confronti del «sistema» e soprattutto le prime dichiarazioni di aperta contestazione all’indirizzo dei personaggi più importanti della società in cui è capitato. Si definisce proletario e figlio della Roma abusiva, veste in maniera volutamente trasandata, si lascia crescere baffi e capelli, giura di odiare il divismo del pallone.
Da Roma e dalla Lazio deve andarsene. Accetta nella stagione successiva il trasferimento ad Avellino, purché non pretendano da lui che porti la divisa sociale, purché non gli rompano le scatole e non lo mettano all’indice com’è stato nella Lazio «dove per far carriera bisognava essere di destra ed essere ciecamente obbedienti a Wilson che distribuiva premi, punizioni, onori e cariche interne a sua discrezione».
«Io sono nato tra i casermoni della bassa borghesia, sono figlio della spaventosa speculazione edilizia di Roma — racconta — mio padre è impiegato al Ministero della Marina, mia madre è casalinga, ho due sorelle. La strada mi ha insegnato più dei libri, quando posso continuo a frequentare Piazza Giovane Italia, il quartiere delle Vittorie. Dalla Lazio mi mandarono via perché la pensavo a modo mio».
Nasce proprio ad Avellino, dapprima senza dare nell’occhio e poi con un’intervista clamorosa a “Lotta Continua”, il personaggio-Montesi. Ogni sabato all’hotel Jolly, quando la squadra gioca in casa, chiede di essere esentato dai soliti discorsi calcistici e dai giochi di carte per ammazzare il tempo: preferisce ricevere i propri compagni dell’ultra sinistra, discutere di problemi sociali, essere solidale con quanti si ritengono emarginati e vagheggiano un loro bisogno di giustizia con discorsi da cospiratori. A chi incauto gli chiede l’autografo, Maurizio Montesi oppone sdegnosi rifiuti e risponde: «Non perdere tempo, pensa alle scuole e agli ospedali. Non vedete come siete ridotti qui in Irpinia?».
Raccontano che aiuti disoccupati e ragazzi usciti di galera, che rifiuti le cene ufficiali, che preferisca le osterie fuori mano, che non usi mai la macchina, che eviti accuratamente di leggere i giornali sportivi. L’allenatore di allora, Paolo Carosi, cerca di capirlo, di dominarlo. Ai cronisti dice che il ragazzo non è affatto un problema, che si è ambientato benissimo, che in campo rende come pochi, che negli allenamenti è d’esempio agli altri. In effetti l’Avellino anche grazie al corridore Montesi raggiunge la sospirata promozione in serie A e ai festeggiamenti che si scatenano inevitabili, il «contestatore» si dichiara fieramente estraneo.
Così tra rimorsi e contraddizioni, Maurizio Montesi giura ai pochi amici di sentirsi sempre più solo e più incompreso tra gli eroi della domenica, tra i superpagati della pedata E nel marzo 1979 sollecitato anche da certi amici insuperabili che lo definiscono il «rivoluzionario in fuorigioco», decide di dire tutta la sua verità a “Lotta Continua”.
E’ un’intervista che mette immediatamente Montesi contro i suoi tifosi, il suo presidente, i suoi compagni di squadra. Senza usare eufemismi li definisce «completamente stronzi perché invece di pensare alle riforme importanti, alle case, agli ospedali, a fronteggiare la disoccupazione, vanno alla partita a fare i tifosi più o meno incompetenti o faziosi…».
Per diversi giorni Montesi deve rifugiarsi a Roma, nell’abitazione della madre. Si temono incidenti, si è convinti che la gente non possa perdonarlo. Poi invece il ribelle torna e finisce in maglia verde la sua inquieta stagione. Parte però immediatamente l’ordine di rimandarlo alla Lazio, a qualsiasi costo. E nella Lazio — anche perché la sua volontà in campo e il suo spirito di sacrificio piacciono al tecnico del momento, Lovati, — il ragazzo di borgata trova finalmente posto e contemporaneamente sembrano quasi affievolirsi le sue insoddisfazioni. Giurano che si è integrato, che rispetta gli altri ed è rispettato. E’ diventato amico di Giordano; finalmente frequenta un calciatore anche fuori dai campi, nelle ore libere.
Ma si arriva all’opera da tre soldi del 6 gennaio 1980, la famigerata Milan-Lazio, l’epicentro dello scandalo delle scommesse. E Maurizio Montesi, in quella domenica, si rifiuta di scendere in campo a cinque minuti dall’inizio della partita, dopo che all’arbitro è stata data la lista col suo nome incluso. Lamenta un acciacco che puzza subito di fasullo. Rientrato a Roma si confida con qualche amico dell’ultra sinistra, ma assicura che mai ufficialmente sottoscriverà le sue accuse. Insinuano che si comporti così perché è troppo amico di Giordano e non vuole rovinarlo.
Rapidamente però diventa il superteste del «calcio nero», il terribile accusatore di Wilson, l’uomo del giorno in una vicenda che sembra poter distruggere tra rivelazioni vere o inventate, in un crescendo di psicosi, il gioco più bello del mondo. E come se non bastasse, dopo aver spaccato la Roma laziale in innocentisti e colpevolisti, il 24 febbraio 1980 esce di scena. E’ un gravissimo incidente, dopo solo diciotto minuti di gioco. Le radiografìe effettuate subito dopo il ricovero evidenziano la rottura scomposta di tibia e perone con molti frammenti ossei. Prendendo visione delle lastre afferma: «Mi sono messo in fuorigioco. E’ il colmo per un rivoluzionario…. Macché rivoluzionario! Erano gli altri a crederlo. Io ho sempre agito secondo coscienza. il calcio abitua a pensare che nella vita sia indispensabile soltanto il risultato, da raggiungere a qualsiasi mezzo. E io non la vedo così, a volte mi sono ribellato… ».
Si riprende, a fatica Montesi torna in campo. Con la Lazio spedita in Serie B dai tribunali sportivi, rimane inattivo nella stagione 1980/81 e poi, nelle due successive, 1981/82 e 1982/83, totalizza complessivamente solo 11 presenze. Un secondo infortunio, sempre alla stessa gamba, all’Olimpico contro la Sambenedettese, porrà fine prematuramente alla sua carriera.
Abbandonato da tutti quelli che conosceva nel mondo del calcio, coinvolto in alcuni mai chiariti episodi di cronaca nera (secondo quanto riportato dai giornali dell’epoca), di lui da molti anni si sono perse completamente le tracce.
Link: https://storiedicalcio.altervista.org/b ... ntesi.html
IL CALCIATORE RIMOSSO.
Quello del calcio è un mondo chiuso e vendicativo, che se può te la fa pagare. Alcuni pagano più di altri, non solo con la damnatio memoriae, ma anche a causa delle pieghe che poi prende la vita. Maurizio Montesi è un centrocampista di quantità, minuto, ma con una resistenza fisica e atletica fuori dal comune. Cresce nelle giovanili della Lazio e nella stagione 1975/76 è campione d’Italia primavera, insieme ad Agostinelli, Di Chiara, Giordano, Manfredonia. Intanto, assoluta pecora nera, milita nell’estrema sinistra romana. Va ad Avellino, dove contribuisce da titolare alla promozione in A del 1978 e viene confermato per il campionato maggiore nella stagione successiva. Durante il campionato però esce una sua intervista a Lotta Continua, la prima di altre interviste ai giornali, in tutto saranno tre, che ne segneranno la carriera calcistica e la vita. In questa da una parte definisce la dirigenza collusa con la malavita e la accusa di gestire la società per ragioni clientelari, dall’altra chiama i tifosi “stronzi” perché soggiacciono a questo ed in più mentre sono pronti a mobilitarsi per la squadra non si curano per esempio dell’ospedale cittadino con pochi posti letto e popolato da scarafaggi. Termina in qualche modo la stagione (ci sarà anche chi in curva proverà a portare uno striscione rosso con scritto “hasta Montesi siempre”) ma il rinnovo è fuori discussione. Lo riaccoglie la Lazio, in cui trova vecchi reduci dagli anni d’oro come Garlaschelli e il capitano e camerata Pino Wilson e suoi ex compagni di giovanili come l’altro camerata Manfredonia, Mauro Tassotti e Bruno Giordano. Sarà una stagione cruciale quella 1979/80, per Montesi, per la Lazio e per il calcio italiano. Intanto è fra i titolari, maglia numero otto nel derby del 28 ottobre 1979, quello della morte di Vincenzo Paparelli. Non ne vuole sapere di giocare la partita, i compagni alla fine lo convincono che il suo gesto isolato avrebbe poco valore e lo costringono a scendere in campo. Ma pochi giorni dopo ecco la seconda intervista pesante di Maurizio Montesi, questa volta a Panorama. Stavolta in un clima nervoso e in un momento in cui forse per la prima volta in Italia si puntano i riflettori (alla maniera della stampa italiana, of course) sul mondo delle curve, è il primo a rivelare i rapporti tra società e ultras, i pacchetti di biglietti gratuiti, i soldi per le trasferte, i favori. Alcune società e alcuni gruppi ultras, sappiamo ormai, ma al tempo la distinzione non viene fatta. In più torna a colpire i presidenti, colpevoli per lui di avere snaturato lo sport popolare per eccellenza, corrompendolo con lo show business, e sfruttandolo come macchina crea consenso. L’aria intorno a Montesi comincia a farsi pesante e arriviamo alla notte tra il cinque e il sei gennaio ottanta, a raccontarla le sue parole:
La sera del 5-1-1980, all’hotel Jolly di Milano, ci eravamo già ritirati in camera. Il mio compagno Avagliano dormiva o comunque sonnecchiava, e io guardavo un film alla televisione, quando si affacciò alla porta della camera Wilson e mi fece cenno di uscire fuori. Si svolse un breve colloquio in corridoio; Wilson innanzitutto fece un discorso generico sulla difficoltà della partita dell’indomani, sull’arbitraggio che si prevedeva favorevole al Milan e poi propose, poiché la nostra sconfitta era probabile, che la si favorisse e parlò di un compenso in denaro che per me doveva essere intorno ai 6-7.000.000 di lire. lo rimasi sconvolto. Era la prima volta che mi veniva fatta una proposta del genere. Dissi che non ci stavo e me ne tornai in camera; Wilson da parte sua disse che non se ne faceva niente. La mattina dopo, da cenni, sguardi e mezze parole di Wilson ebbi la sensazione che la decisione di falsare l’incontro non era stata affatto revocata. E decisi allora di non giocare.
Il suo non starci non è piaciuto agli altri, capitano in testa, forse si pensa di fargliela pagare. Fatto sta che si arriva a Cagliari Lazio del 24 febbraio e un intervento di Bellini gli procura la frattura di tibia e perone. Nei giorni e nelle settimane successive in ospedale non si vedono compagni di squadra o dirigenti. Il 4 marzo Montesi riceve la visita di un giovane giornalista di un giovane giornale, Oliviero Beha della Repubblica, e a lui concede la terza intervista chiave della sua vita. Scoperchierà quello che mai si era visto in Italia e che passa alla storia come Calcioscommesse. Giocatori verranno arrestati in campo al termine delle partite, si arriverà a radiazioni, tra queste quella di Albertosi, retrocessioni, la Lazio ed il Mian, penalizzazioni, squalifiche. Nella squadra di Montesi Cacciatori, Wilson, Zucchini, Manfredonia e Giordano. Lui stesso sconterà quattro mesi di squalifica per omessa denuncia. Ripresosi dall’infortunio Montesi prova a rientrare e per descrivere questo tragitto di fine carriera prendiamo in prestito le parole di una pagina tra quelle che si occupano di Lazio:
Maurizio riceve continue minacce, va in giro scortato dai “compagni” del quartiere e da qualche amico che lo protegge quando gira per la città, ma quando scende in campo per gli allenamenti a Tor di Quinto è solo e dalle tribune gli piove addosso di tutto, con i tifosi che lo insultano attaccati alle reti urlandogli “infame, spia comunista”. Nella stagione 1980-1981, Montesi non mette mai piede in campo. Nelle due successive, colleziona solo 11 spezzoni di partita, poi si infortuna sempre alla gamba destra e quell’incidente mette la parola fine al suo matrimonio con la Lazio e alla sua carriera, perché il suo nome è finito sulla lista nera e nessuno in Italia gli fa più un contratto da calciatore.
Maurizio Montesi sparisce dal mondo del calcio, seppure ancora per un po’ figura nell’organico della S.S. Lazio come osservatore. Ricompare in realtà nel 1984 a Londra ma per tutt’altri motivi, lo arrestano per detenzione di stupefacenti. E poi dieci anni dopo a seguito di una vicenda del 1992, quando a largo di Fiumicino affonda una barca con a bordo tre tonnellate e mezza di hashish viene condannato per traffico internazionale di stupefacenti a quattro anni. Scontati i quali sparisce per davvero e la chiusa la affidiamo ancora a un pagina biancoceleste: “Scontata la pena, Maurizio Montesi esce dal carcere e di lui si perde ogni traccia. L’unica cosa certa è che ha lasciato l’Italia: secondo molti per trasferirsi in Francia, mentre altri sostengono che si sia trasferito in Asia e che ora viva in India. L’altra cosa altrettanto certa è che, nel mondo Lazio, nessuno o quasi in questi anni ha mai sofferto per l’uscita di scena del “compagno Montesi”.
Link: https://www.minutosettantotto.it/il-calciatore-rimosso/